La ragionevole follia dei beni comuni

il: 24 Giugno 2013

Il racconto della battaglia per la difesa dell’acqua pubblica, il bilancio dei due anni trascorsi dal trionfo referendario e il punto sull’attuazione della volontà popolare

 

 Cominciamo dalla fine. 12 giugno 2013, secondo compleanno del Referendum Acqua Bene Comune. Il giurista Stefano Rodotà, alla piazza di San Cosimato a Roma, gremita di gente e bandiere blu: “Il referendum sull’acqua è una battaglia giuridica difficilissima, uno dei fatti più rilevanti e meno presi in considerazione dell’ultima fase politica. La politica ufficiale ha perso davvero una grande occasione per mettersi in sintonia con la società. Ventisette milioni di persone non sono una minoranza”.

Eppure. Quando il 12 e 13 giugno del 2011 con uno dei risultati referendari numericamente più significativi della storia repubblicana italiana – il 56,8% degli aventi diritto –  abbiamo vinto  la battaglia contro la privatizzazione coatta delle risorse idriche italiane, reti, organizzazioni e  movimenti per l’acqua di mezzo mondo hanno plaudito al risultato storico. L’Uruguay nel 2004 aveva per primo inserito l’acqua come diritto umano nella Costituzione statale con uno straordinario plebiscito popolare. Attraverso le liste della FFOSE, la federazione sindacale dei lavoratori del servizio idrico, faceva arrivare commenti emozionati: “Avete preso il nostro testimone dall’altra parte del mondo. L’acqua è una, difendiamola insieme”; la Bolivia, teatro della prima guerra dell’acqua nel 2000, ripeteva lo slogan di Cochabamba:” L’acqua è di tutti e di nessuno”; la Colombia nel 2009 aveva tentato lo stesso tipo di battaglia, un referendum popolare sostenuto da una impressionante raccolta firme che per per due anni aveva battuto palmo a palmo il Paese. L’allora Governo Uribe vide bene di affossare il tutto con un colpo di mano in parlamento.

 

Quel 13 giugno 2011  l’organizzazione che aveva traghettato la raccolte firme colombiana, Ecofondo,  scriveva:”Almeno voi ce l’avete fatta, non molleremo nemmeno noi”. Ma anche dalla Turchia che nel 2009 aveva ospitato il quinto Forum Mondiale dell’Acqua, ed il relativo controforum; e poi Parigi e Berlino, che in Europa stavano ripubblicizzando il sistema idrico della città dopo un quarto di secolo di privatizzazioni, ed i risultati erano già sotto gli occhi di tutti: risparmi d’acqua e di bolletta, popolazioni partecipi. Insomma, il  referendum dell’acqua rappresentava una svolta nelle battaglie per la difesa dei beni comuni che andava ben oltre i confini italiani.

Eppure. I due quesiti referendari – il primo sulla modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il secondo sulla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito –  avevano fermato la privatizzazione del servizio idrico italiano messa in atto dal Governo Berlusconi, che obbligava la messa sul mercato obbligatoria di quote – almeno il 40% – ed arginava il profitto sull’acqua eliminando il cosiddetto full recovery cost: quell’articolo del testo unico dell’Ambiente, il 152/2006, che prevedeva un “tasso di remunerazione del capitale investito”, un minimo del 7% della nostra bolletta che automaticamente, fin dalla legge Galli del ’94, copriva gli  investimenti sulla rete attraverso un tasso di remunerazione del capitale investito.

Due norme che di fatto rendevano il panorama italiano del settore idrico un unicum: la privatizzazione dell’acqua è uno degli affari più remunerativi del globo, ed avanza a passi da gigante. Ma una privatizzazione dell’acqua “per legge” non si era ancora vista. Abrogati gli articoli incriminati, se da una parte si aprivano dei vulnus legislativi per l’affidamento del servizio idrico, dall’altra iniziava la battaglia vera, quella per la ripubblicizzazione: un panorama politico nuovo, dove i valori di autonomia e democrazia partecipativa insiti nella battaglia referendaria e portati avanti dai tanti comitati territoriali  “Due sì per l’acqua bene comune” dovevano finalmente essere messi in pratica.

La partecipazione: dalle chiese ai centri sociali.

Naturalmente non si trattava solo di una questione normativa. Il Referendum Acqua Bene Comune portava una ventata di aria fresca nell’orizzonte politico italiano: si comincia a ragionare attorno ai beni comuni come dimensione del reale, un’alternativa concreta e praticabile oltre il mercato che pretende un sistema dove servizi essenziali e beni naturali siano salvaguardati oltre la finanziarizzazione selvaggia. “L’acqua paradigma dei beni comuni” era lo slogan. Accanto a “Si scrive acqua, si legge democrazia”.

“Questo modello finanziario, per poter sopravvivere, deve mettere sul mercato l’intera vita dei cittadini, fino al punto da non poter rispettare nemmeno la democrazia formale”, spiegava Marco Bersani di Attac Italia, sotto campagna referendaria. E parte dei cittadini italiani dimostravano di credere in questo, e di volere fortemente un cambiamento.

Dalla Legge di Iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua, nel 2007, sostenuta da oltre 400.000 firme; alla raccolta delle firme a sostegno del referendum, più di un milione e mezzo, il triplo di quello che era necessario per poter presentare i quesiti alla Corte di Cassazione; fino al dilagante risultato del referendum stesso, 27 milioni di persone che all’inizio dell’estate sono andate a votare per dire no all’acqua come merce: ogni passo – organizzato, partecipato, dal basso – del percorso simbolicissimo della difesa  dell’acqua, si portava dietro una partecipazione popolare mai vista e trasversale: “Dalle chiese ai centri sociali”, si diceva.

Si apriva di fatto una stagione all’insegna della costruzione di nuovi spazi sociali creativi, un vero laboratorio di un altro mondo possibile che in ogni territorio trovava la sua declinazione. La penetrazione sociale dell’acqua è formidabile e si connette ad altre battaglie territoriali. Se a Roma la battaglia per la difesa dell’acqua diventava l’organizzazione di comitati di quartiere ed esperienze come “RiPubblica”, che si intersecava con l’ondata di riappropriazione di spazi cittadini svenduti o in disuso, in Calabria l’acqua pubblica era insieme al no alle centrali al carbone o al Ponte sullo stretto. Mentre in Trentino diventava  difesa delle montagne, “madri delle acque”: l’acqua, faceva muovere corde profonde, perfino ancestrali. Diceva Berito Cubaria sciamano del popolo indigeno colombiano U’wa, il cui territorio sacro vive sotto la minaccia di esproprio dalle grandi majors del petrolio e del gas: “I corsi d’ acqua sono i discorsi che dalle montagne vanno al mare. Il mundo blanco, i ghiacciai, sono il cervello della nostra madre terra. Se interrompiamo questi discorsi, o gli inquiniamo, o li vendiamo, è come se vendessimo nostra madre. O la condannassimo a morire, lentamente in una atroce agonia”. Berito diceva queste parole ai piedi del ghiacciaio della Marmolada, sulle Dolomiti. Facendo rinascere in chi lo ascoltava, un senso di appartenenza al territorio forse dimenticato. Gli faceva eco il prete italiano dell’acqua, il comboniano Alex Zanotelli: “Vendereste vostra madre?”, e tuonava contro quelle istituzioni ecclesiastiche conniventi con il lucro sulle risorse idriche, illustrando i dati allarmanti del miliardo e mezzo di assetati nel mondo, inesorabilmente in aumento.

Insomma, la battaglia per l’acqua bene comune si dimostrava sempre più una rivoluzione culturale che sparigliava le carte delle politiche neoliberiste sposate dall’Europa e dal nostro Paese. Andando anche a lavorare su nessi sociali sensibili: l’acqua bene comune diventa emblema di un superamento della dicotomia pubblico-privato,  sperimentazione di nuove forme di gestione partecipata. Punta ai nodi del sistema capitalistico – lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, la crisi strutturale del modello neoliberista – e diventa un pensiero – matrice da applicare ad altri ambiti: istruzione,sanità, territorio, trasporto, e via dicendo.

Eppure. A due anni dalla sua approvazione, il referendum Acqua Bene Comune rimane in gran parte dei territori lettera morta.

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