Fracking, la UE dice si

il: 30 Gennaio 2014

La commissione Europea dà il via libera al fracking. Nonostante il 64% delle persone consultate dalla stessa Commissione si siano espresse in maniera contraria alla pratica del fracking per estrarre gas. Saranno i singoli stati, liberi di scegliere il proprio mix energetico, a decidere se sfruttare o meno il gas di scisto e, in caso affermativo, dovranno seguire “una serie di principi comuni” a tutela dell’ambiente. Questi, però, non saranno vincolanti, anche se l’esecutivo comunitario monitorerà la loro applicazione per 18 mesi e, in caso di mancato rispetto, potrà decidere di agire con una proposta legislativa vera e propria per renderle obbligatorie. La palla, per allora, sarà però passata nelle mani della nuova Commissione.

Nel giugno del 2013 la CE ha presentato i risultati dell’indagine lanciata mesi prima sull’uso di combustibili non convenzionali in Europa, che ha fotografato un netto no alla frattura idraulica, o fracking, per l’estrazione del gas di scisto, insieme alla nascita di numerosi reti europee che creano opposizione laddove le imprese stanno sviluppando il numero maggiore di progetti estrattivi.

Da una parte ci sono infatti paesi che hanno già vietato le esplorazioni di shale gas, come per esempio la Francia e l’Italia, dove il nostro ministero dello Sviluppo economico italiano ha fatto sapere che “l’Italia ha adottato nel marzo 2013 una Strategia energetica nazionale che non prevede il rilascio di licenze per la ricerca e lo sfruttamento dello shale gas“. Mentre altri sono già partiti come Gran Bretagna, Polonia e Danimarca. La Germania, invece, ha deciso di vietarle ma solo nelle zone ad alta densità di falde freatiche.

In Spagna, sono 400 i municipi che hanno approvato dichiarazioni contro questa tecnica. In Polonia – dove sono oltre 50 i pozzi esplorativi in corso – l’opposizione cittadina è criminalizzata: in una zona chiamata Zuralow i contadini sono in occupazione da sette mesi contro la Chevron, che pare riuscire a dribblare la legge statale che pretenderebbe accurati studi previ. Mentre l’Italiana ENI pare abbandonare il Paese.

Anche in Gran Bretagna – dove la metà della popolazione è nettamente contro il fracking – il governo pare ignorare la volontà popolare assicurando un regime fiscale favorevole alle imprese e presentando un piano energetico che prevede perforazioni di due terzi del Paese. Anche qui la repressione nei confronti delle proteste sono state violente come a Balcombe contro Cuadrilla Resources, e a Barton Moss3, contro Igas. La Romania poi brilla per la drammaticità: il 70% del Paese è dato in concessione e i siti estrattivi sono protetti militarmente, con la popolazione di fatto sotto scacco delle forze antisommossa, impedita in qualsiasi forma di protesta contro Chevron. Nella zona di Mosna da settimane hanno fromato un accampamento di resistenza, e così a Dobrogea, nel Sud Est polacco, nono stante il leader socialdemocratico Victor Ponta avesse promesso durante la campagna elettorale del 2012, proprio che non avrebbe ceduto ai ricatti delle multinazionali. 

La scorsa settimana dunque la CE ha presentato la documentazione per regolamentare il fracking in Europa: gli studi richiesti commissione esecutiva pubblicati più di un anno fa, rilevavano oltre 11 lacune legislative in materia di acqua, fracking e industria mineraria, che suggerivano con forza la necessità di una seria regolamentazione, anche per ciò che concerneva la partecipazione popolare. Secondo alcune fonti, in ottobre queste norme stavano per essere presentate per la fine del 2013 ma la campagna di pressione capeggiata in particolare dalla Gran Bretagna deve aver piegato questa volontà, perchè alla fine si è risolta a confezionare un pacchetto di buoni consigli.

Con una strana piroetta antidemocratica dunque, la CE ha negoziato in forma notevolmente opaca il cosiddetto TTIP -Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), definito il più grande accordo commerciale del mondo, fra EU e USA: Ha l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti: riduzione delle tariffe in tutti i settori, barriere doganali e relative differenze nei regolamenti tecnici, norme e le procedure di omologazione. I negoziati TTIP mirano all’apertura di entrambi i mercati per i servizi, gli investimenti e gli appalti pubblici.Ufficialmente, la finalità è quella di contribuire a norme comuni sul commercio a livello globale. Due milioni di posti di lavoro in più in Ue con le liberalizzazioni, 119 miliardi di euro l’anno di Pil per l’Europa e 130 miliardi di dollari per gli Stati Uniti, cioè 545 euro in più l’anno per ogni famiglia di quattro persone in Europa, e 901 dollari negli Stati Uniti. Sono le rosee previsioni diffuse dal Commissario al commercio Karel De Gucht nel luglio scorso, quando i negoziati sono partiti formalmente, che si dovrebbero realizzare però entro il 2027.

Ma di fatto è evidente lo slalom fra norme ambientali e sociali europee, per favorire lo sbarco delle imprese statunitensi, in particolari quelle del gas. Secondo il TTIP, se un’impresa americana considera le restrizioni al fracking troppo limitative, può ad esempio ricorrere al tribunale d’arbitrariato.

Ttip non avrebbe alcun senso senza l’introduzione di un Meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e Stati, (Investor-State Dispute Settlement – Isds). Esso permetterebbe alle imprese di far condannare quei paesi che approvassero leggi dannose per i propri investimenti presenti e futuri. Oggi sono costrette a presentarsi ai tribunali nazionali, e sottostare alle regole di ciascun paese, e in Europa, in alcuni casi, alla Corte europea di giustizia. Come evitare le connesse seccature? Creare un organismo che, come il Dispute Settlement Body della Wto per il commercio, giudichi tenendo in conto le sole leggi e contratti relativi agli investimenti. Prendiamo il caso del Quebec, che nel maggio 2013 ha vietato l’estrazione di gas e petrolio dal fracking, cioè dalla polverizzazione per esplosione del sottosuolo, pericolosa per l’uomo e l’ambiente. La compagnia statunitense Lone Pine, che aveva firmato col governo canadese una concessione per l’estrazione, ha chiesto un risarcimento da 250 milioni di dollari. Se negli accordi tra Usa e Canada fosse stato introdotto un Isds, gli avrebbe dato sicuramente ragione perché gli interessi generali non avrebbero avuto alcun peso. D’altronde, la Commissione ha recentemente definito i regolamenti UE – spesso frutto di grandi battaglie cittadine – “generatori di problemi”. Eppure il Ttip contiene un “Capitolo orizzontale per la coerenza dei regolamenti” che prevede l’istituzione del Regulatory Cooperation Council: un organo dove esperti della Commissione e del ministero Usa competente valuterebbero l’impatto commerciale di ogni marchio, regola, etichetta che si volesse introdurre a livello nazionale, federale o europeo. A sua discrezione sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile. A sua discrezione sarebbe valutato il rapporto costi – benefici di ogni misura e il livello di conciliazione e uniformità tra Usa e Ue da raggiungere, e quindi la loro effettiva introduzione.

Sono oltre 400 le organizzazioni europee che hanno scritto una carta aperta congiunta alle istituzioni comunitarie per esigere che la popolazione europea che ha dichiarato con un netto no la propria contrarietà all’estrazione dei combustibili fossili con tecniche che evidentemente mettono a rischio in primis le falde acquifere, ma anche l’aria che respiriamo.

L’urgenza di cambiare il modello energetico è talmente evidente, e la soluzione – diminuire il consumo energetico e sviluppare fonti rinnovabili – che qualunque altra alternativa non si può definire altrimenti se non suicidio planetario.