In Cile i cittadini vincono contro la grande diga. Dalle Ande alle Alpi, ripensiamo il modello energetico.

il: 21 Luglio 2014

Con una decisione che farà storia, la presidenta del Cile Michelle Bachelet ha respinto il progetto “Hidroaysén” in Patagonia, stracciando il contratto con le multinazionali Colbún ed Endesa, di proprietà dell’italiana Enel. Una vittoria straordinaria per i movimenti e le organizzazioni sociali della campagna “Patagonia sin represas” (Patagonia senza dighe) che per otto anni non hanno mai mollato la presa, difendendo con le unghie e con i denti il prezioso ecosistema e la vita dei suoi abitanti. E che ci spinge a riflettere sul modello energetico imperante.

Il progetto prevedeva la costruzione di cinque dighe sui due fiumi principali del Paese, il Pascua ed il Baker. La linea di trasmissione lunga 2300 chilometri, necessaria per trasportare l’energia verso le miniere del nord del paese, avrebbe dovuto attraversare 67 comuni di cui alcuni indigeni, 14 aree protette, foreste pluviali, parchi nazionali e zone geologicamente instabili, con vulcani attivi e frequenti terremoti; 5.900 gli ettari di terra immolati per la creazione dei bacini artificiali, con conseguenze ambientali difficili da immaginare, e 7 miliardi di dollari il costo complessivo. Un megaprogetto che si inseriva nel quadro delle politiche economiche nate sotto la dittatura di Pinochet e che hanno fatto del Cile un unicum  nel campo della finanziarizzazione delle risorse, vendendosi anche i fiumi. Contro la possibile devastazione del fragile ecosistema patagonico,  nel 2006 nasceva la campagna internazionale “Patagonia Sin Represas”, che ha unito settori diversi della regione di Aysèn e poi del Cile intero. Le rivolte studentesche degli anni scorsi – quelli che hanno portato la bella Camila Vallejo dalle barricate al governo – avevano fra i loro punti di programma l’adesione alla campagna. E nella tornata elettorale che ha rieletto la Bachelet nel marzo scorso, si gridava lo slogan “vota sin represa”. Soprattutto, la difesa strenua di quel lembo di terra quasi disabitato e per questo bellissimo, diventa negli anni il simbolo dell’opposizione al Cile ultraliberista,  creato a colpi di Costituzione negli anni Ottanta da “don Augusto” (Pinochet); ma anche una critica ad un sistema globalizzato, quello di un modello energetico definito da sempre più studiosi, non più sostenibile.

L’internazionalità di “Patagonia sin represas” aveva toccato anche il Trentino: per due anni di seguito – nel 2012 e 13 –  esponenti delle popolazioni indigene Mapuche hanno partecipato ai “Cammini dell’Acqua” (v: yaku.eu) nelle nostre montagne. In Brenta, insieme ai gruppi locali della SAT, a Mountain Wilderness, a molti cittadini e a volte anche ai ragazzi dell’Istituto Guetti di Tione, si erano attraversati i boschi e le cascate di Vallesinella, ascoltando le testimonianze di queste comunità originarie della Patagonia che da una parte raccontavano le lotte per creare alternative economiche per la propria regione – la costruzione delle dighe naturalmente prometteva posti di lavoro – dall’altra difendevano la propria cultura ancestrale: quando Jorge Weke, rappresentante spirituale della comunità mapuche Panguipulli, ha fatto sedere nella radura all’ombra dello Spinale i partecipanti raccontando il modo in cui i mapuche sentono la Madre Terra, non è stato difficile unire Alpi ed Ande nella comune difesa del ciclo idrogeologico montano.

Prima di tutti però, “Patagonia sin represas” era arrivata a Trento con Juan Pablo Orrego, nel 2011. Biologo, insignito di numerosi premi per le sue battaglie fra cui il Premio Goldman nel’97, referente di Ecosistemas, associazione ambientalista cilena molto attiva, Juan Pablo è il volto più noto della campagna. Ci aveva descritto la situazione cilena: “Le nostre risorse idriche sono per il 73% nelle mani delle agroindustrie, per il 12% dell’apparato industriale pesante, per il 9% in quelle delle imprese minierarie, il restante è delle multinazionali per lo più europee (Suez, Aguas de Barcelona etc), che ci rivendono la nostra acqua a prezzi altissimi: per assurdo, siete più voi padroni della nostra acqua qui in Italia attraverso Enel – che per il 31% è del Governo – che noi cileni”. Orrego ci parlava degli impatti sociali ed ambientali del progetto Hidroaysèn, “che produrrà energia elettrica spedita a Santiago del Cile, ad oltre 1000 chilometri di distanza, per rifornire le multinazionali straniere: l’energia costa più agli abitanti della Patagonia che nella capitale, con un consumo idrico di 1000 metri cubi al secondo e la devastazione di flora e fauna dell’ecosistema patagonico. Ma la nostra forza – raccontava – è l’unione fra cileni, e con organizzazioni di tutto il mondo: abbiamo avvocati, tecnici, persino artisti, che lavorano per noi gratuitamente, e l’appoggio di associazioni che si sono unite a noi da ogni parte del mondo”. Ecco perché nasceva anche in Italia la piattaforma Stop Enel, che unisce vertenze italiane e straniere in contrasto con le megadighe in America latina, ma anche, ad esempio, le centrali a carbone di Civitavecchia. Oggi Juan Pablo è soddisfatto, ma guardingo: ”Abbiamo creato un consenso che la Bachelet non ha potuto ignorare – ci ha raccontato, raggiunto in skype in Cile poco dopo la notizia del ritiro governativo al progetto – ma la battaglia contro Hidroaysen, simbolica per il Cile e per il mondo, non è finita.

Il governo  ha annunciato nuovi investimenti per 125.000 milioni di dollari per dare nuova linfa all’industria mineraria”. Dopo otto anni di vertenze legali (ben 35), ricorsi, marce ed occupazioni; richieste ad Enel durante i consigli di amministrazione a Roma – i rappresentanti della campagna potevano parlare per 5 minuti, traduzione compresa – minacce, delegittimazioni a mezzo stampa – “ecoterroristi, li chiamavano” – sembra non ci sia pace per le migliaia di cittadini che stanno praticamente dedicando la vita per il sogno di una Patagonia integra. “Il nostro percorso è concreto e propone la produzione di energia pulita – non quella dei crediti di carbonio, che sono esattamente quello che ha permesso ad Enel di costruire centrali a carbone in Italia, adducendo certificati di produzione di energia verde con l’idroelettrico in America latina – sogniamo un Cile più equo, ed un mondo di cittadini consapevoli che capiscano che non abbiamo più opzioni: la biosfera sta collassando, se continuino così non avremo scampo”. Enel – Endesa, che con lo stop al progetto ha perso 258 milioni di dollari, ha 30 giorni per appellarsi.

articolo uscito su L’Adige del 9 luglio ’14 – Francesca Caprini