La rivolta dell'essere capaci, contro il potere. La riflessione di John Holloway

il: 7 Ottobre 2014

Come misuriamo la ricchezza? Attraverso il denaro, le persone più ricche sono quelle che accumulano più denaro, sembra ovvio. E invece non lo è. John Holloway ci ricorda che sotto l’apparente solidità del denaro c’è un liquido che bolle: é la nostra ricchezza – quella prodotta dal nostro fare, dalla nostra attività creativa – che lotta contro la sua astrazione-negazione in forma di merce. L’esito della lotta non è scontato. Ciò che esiste nella forma di un’altra cosa, ciò che esiste malgrado sia negato, è il lato nascosto di ciò che lo nega, è la sua crisi. La possibilità di un cambiamento radicale, profondo, sorge dal basso, da ciò che è nascosto, latente. Il capitalismo lotta continuamente per trovare una più profonda subordinazione della vita alla sua necessità di dominare ed espandersi. La sua dominazione, tuttavia, è inconcepibile senza la resistenza. Il signore dipende dai suoi sudditi. Ed è in questa dipendenza che si trova la chiave per comprendere la crisi del suo dominio. Il nostro “mettere in comune” è il movimento della crisi

Dev’essere un verbo, o no? Un sostantivo non può esprimere il tipo di società che vogliamo. Un organizzare sociale che si autodetermina non può essere contenuto in un sostantivo. La nozione di comunismo come sostantivo è priva di senso e pericolosamente autocontraddittoria. Un sostantivo suggerisce un qualcosa di fisso che sarebbe incompatibile con la costante autocreazione collettiva. Un sostantivo esclude il soggetto attivo, mentre la ragione di essere del mondo che vogliamo è che il soggetto sociale attivo stia al centro.

La nostra è la rivolta dei verbi contro i sostantivi. È la rivolta dell’essere capaci di contro il potere. Il movimento dell’autodeterminazione (o del mettere in comune [1]) contro la determinazione alienata difficilmente potrebbe esistere in  un’altra maniera. La determinazione alienata è la reclusione delle nostre vite dentro coagulazioni, transenne, regolamenti, frontiere, consuetudini. In altre parole, dentro forme sociali, che sono i modelli nei quali si irrigidisce l’azione umana.

Marx ha dedicato la sua opera alla critica di quelle forme. La sfida viene avanzata nella prima frase del Capitale, quella che ci dice che: “La ricchezza delle società nelle quali regna il modo di produzione capitalista si presenta come una ‘immensa accumulazione di merci’”. Nei Grundrisse, Marx spiega:”Che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, etc.(…)? (Cos’è se non) l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane in quanto tali”. Si presenta in questa maniera perché è quella la forma sociale nella quale (la ricchezza, ndt) esiste. La forza umana della creazione, potenzialmente illimitata, è imprigionata nei limiti della forma merce. Un orrore assoluto, un incubo totale, un presente catastrofico che minaccia di condurci verso una completa autodistruzione. Com’è accaduto? Che significa? Come possiamo rompere queste forme sociali?

Ciò che va sottolineato non sono solo le forme (merce, valore, denaro, rendita, leggi, Stato e altre) della critica di Marx nel Capitale, ma il completo congelamento delle relazioni umane che costituiscono quelle forme. Non si tratta solo di criticare le forme sociali capitaliste, ma di comprendere che le forme sociali in quanto tali sono capitaliste: un’idea che è insieme vertiginosa e stimolante. Oppure, per tornare alla nostra formulazione precedente, il problema non è un certo tipo di sostantivo ma sono i sostantivi in sé, l’imprigionamento dei verbi dentro strutture rigide o chiuse.

Il sostantivo è strettamente legato al congelamento dell’identità, mentre il verbo indica una non-identità, un superamento degli argini dell’identità, una rottura che va oltre, lo stesso movimento dell’antiidentità: un’antiidentificazione che può essere compresa solo come un movimento sovversivo e costante contro l’identità nella quale si trova intrappolata (e noi con lei). Lasciamo, dunque, che il sostantivo esprima l’identità e il verbo il movimento dell’antiidentità. L’identità è la separazione reale, ma ingannevole, della costituzione e dell’esistenza, mentre è evidente che l’azione di mettere in comune può significare solo il superamento di questa separazione. L’amore come passione e non come abitudine.

Il mettere in comune è il movimento contro ciò che si interpone nel cammino verso l’autodeterminazione sociale delle nostre vite. Gli ostacoli che dobbiamo affrontare non sono solo la nostra separazione dai mezzi di produzione, ma tutte quelle forme sociali che proclamano la loro identità, che negano la loro esistenza come forme e dicono semplicemente: siamo. Il denaro, per esempio, dice: “Io sono quel che sono”, pura identificazione atemporale. Non dice: sono una forma delle relazioni sociali, il congelamento del modo in cui le persone si mettono in relazione le une con le altre in un certo, specifico contesto sociale. Il denaro non ci dice: sono un prodotto umano e posso, pertanto, essere abolito da chi mi ha creato. Tutto il contrario: la forza del denaro dipende dalla negazione di ciò che lo produce e lo riproduce. Il potere del denaro si basa sulla separazione della sua esistenza dalla sua costituzione, dalla sua genesi. La stessa cosa accade, come per il denaro, con altri concetti come moglie, tavolo, Stato, merce, Italia, uomo, pranzo e altri ancora. Tutti si presentano come pompose, mendaci, autosufficienti identità, come esistenze liberate dal loro momento costitutivo, come sostantivi che hanno lasciato indietro i verbi che li hanno creati. Devono essere tutti disciolti. L’azione del mettere in comune è il movimento del loro scioglimento, è la liberazione del nostro fare, la riappropriazione del mondo. Per liberare il nostro fare culinario dobbiamo pensare al cibo dal punto di vista dell’attività di cucinare, dobbiamo riunire l’esistenza di un pasto con la sua costituzione, dobbiamo emancipare il verbo dal sostantivo che ha creato. E come con gli alimenti, dobbiamo fare lo stesso con Italia, uomo, merce, Stato, tavolo, moglie, denaro.

Questa critica, pertanto, è genetica, diretta a recuperare la genesi di queste forme che negano le loro origini. Dietro ciò che esiste, cerca il processo che lo costituisce, che ha dato origine alla sua esistenza. Fondamentalmente, la critica domanda anche: cosa succede nel suo processo di costituzione che dà luogo a un’esistenza che nega la propria origine? Cosa accade con i nostri verbi che danno origine a sostantivi che li fagocitano? Che succede con il nostro fare che crea un fatto che lo nega? Non è sufficiente, allora, capire che tanto il denaro come l’uomo, la moglie, la merce, lo Stato, la tavola, l’Italia sono prodotti umani. Dobbiamo andare alla radice per comprendere cosa succede con il nostro fare che genera queste mostruosità, questi figli che negano i padri.

Che accade col nostro fare? La risposta di Marx è chiara. Nella società capitalista il nostro fare è autoantagonista. Ha un carattere duplice: da una parte quello che Marx chiama lavoro concreto o utile, dall’altra il lavoro astratto. “L’economia politica gira intorno a questo punto”, dice. Se vogliamo capire come sia possibile che una nostra attività produca una società che la nega, dobbiamo dirigere il nostro sguardo verso la duplice natura di questa attività.

Il lavoro concreto è semplicemente lavoro che produce la ricchezza in tutte le sue varietà: fabbricare un’automobile, scrivere un articolo, cucinare un pasto, pulire le strade. Qui non c’è nulla che conduca a una separazione tra costituzione ed esistenza. Costruisco un tavolo, lo uso oppure lo consegno a qualcuno che lo utilizzerà: la sua esistenza come tavolo parla direttamente della mia azione di averlo fatto. Ci sono un fare e una cosa fatta, e non c’è separazione tra loro.

Il lavoro astratto è la medesima attività, però vista adesso dalla prospettiva della produzione di merci. Costruisco un tavolo, e ciò che importa ora non sono le sue specifiche caratteristiche o la mia relazione con esso, ma il suo valore o il suo prezzo di mercato. Il tavolo, come merce, è “un oggetto esterno” che non ci riconosce. In quanto merce, è qualcosa che si vende e si compra, che si misura nei termini della relazione quantitativa che stabilisce con altri prodotti, generalmente espressa dal denaro. Nel mondo delle merci, ciò che conta è la quantità di valore prodotto, non il suo contenuto in termini di automobili, articoli, pasti o strade pulite. Si tratta di un’astrazione delle qualità specifiche dei lavori concreti: ora essi contano solo come quantità di lavoro astratto. Si opera così un’astrazione dell’atto del produrre: tutto ciò che conta è la quantità del valore prodotto.

Il lavoro astratto crea un mondo di cose, un mondo di esistenze separate dalla loro costituzione, un mondo di identità che proclamano: siamo, un mondo di sostantivi indifferenti ai verbi che li hanno fatti esistere, un mondo di feticci (come li chiamò Marx). Il lavoro astratto è dinamico, è mosso dalla ricerca del valore, del profitto, ma presenta le sue creazioni come cose indipendenti dall’atto della loro creazione. In altri termini, la trasformazione della nostra attività (del nostro fare, del nostro lavoro concreto) in lavoro astratto è ciò che conduce al congelamento o alla coagulazione delle relazioni sociali in forme sociali. Possiamo pensare al lavoro astratto come a una forma sociale, vale a dire, come alla forma in cui esiste il lavoro concreto; tuttavia essa è una forma speciale, è la forma centrale che genera tutte le altre forme. È il lavoro astratto ciò che mantiene intrappolati il potenziale e la creatività senza limite del lavoro concreto, cioè, del fare umano. È pertanto il lavoro astratto la chiave per comprendere tutte le altre forme di chiusura o dominio.

Il fare autocontraddittorio e la ricchezza

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La ricchezza esiste nella forma di una immensa accumulazione di merci, il lavoro concreto (o fare umano) nella forma del lavoro astratto. Il fare umano (lavoro concreto) produce ricchezza, il lavoro astratto produce merci. In entrambi i casi, l’attività (tanto il fare come il lavoro astratto) è inevitabilmente sociale. In qualsiasi società (compresa quella attuale) esiste una convergenza delle differenti attività, un fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialità, di “comunalità”, un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune. La ricchezza esiste in tutte le società, però attualmente essa esiste nella forma dell’accumulazione di merci; il fare umano esiste in qualunque società, ma in quella attuale si presenta in forma di lavoro astratto. Allo stesso modo, possiamo dire che l’azione del mettere in comune o la coesione sociale esistono in qualsiasi società, ma sotto il capitalismo si presentano in modo peculiare. Esiste una più intensa ed estesa integrazione dei fare di prima, ma questa intensa integrazione sociale non è accompagnata da una determinazione sociale di ciò che viene prodotto. Essa resta soggetta, in primo luogo, alla determinazione privata dei padroni del capitale. Quella determinazione esclusiva dei padroni del capitale è soggetta, a sua volta, alla determinazione sociale del denaro (cioè del valore): una determinazione che non è soggetta ad alcun controllo cosciente.

L’azione del mettere in comune, allo stesso modo che la ricchezza, così come il fare o il lavoro concreto, esiste come un substrato nascosto di una forma sociale che nega la sua esistenza. Abbiamo dunque un’indissolubile trinità: la ricchezza, il fare e il mettere in comune, che esiste nella forma di una controtrinità, ugualmente indissolubile: le merci, il lavoro astratto e il capitalismo. Tutti gli sguardi si dirigono ora verso questa “esistenza in forma di” oppure verso il “si presenta come”. Quando diciamo – con Marx – che nella società attuale la ricchezza “si presenta come un’immensa accumulazione di merci” è chiaro che non si tratta di una mera illusione, non è una falsa apparenza. Se la ricchezza appare in questo modo, è perché esiste realmente sotto questa forma. Deve essere chiaro, però, anche che l’espressione non indica una semplice identità: non stiamo sostenendo che nella società capitalista la ricchezza sia un’immensa accumulazione di merci, o che il lavoro concreto sia lavoro astratto, o che l’azione del mettere in comune sia il capitalismo. Stiamo parlando, chiaramente, di due cose che non sono identiche ma si presentano come identiche. In questo modo, qui ci troviamo di fronte a una tensione, però, qual è la natura di questa tensione? È la tensione della dominazione. Se qualcosa esiste nella forma di un’altra cosa, allora è ovvio che quel qualcosa è soggetto a quella forma. Se la ricchezza esiste sotto la forma di merce, è la merce che domina, così come il lavoro astratto domina quello concreto e il capitalismo domina ciò che è messo in comune[2].

Questa dominazione è una negazione. Dunque, se la ricchezza esiste nella forma dell’accumulazione delle merci, in effetti, la merce proclama: sono la sola ricchezza, e questa è una ricchezza, in generale, misurata nella forma-denaro della merce. Sappiamo questo dalla nostra esperienza quotidiana: la ricchezza viene misurata in denaro. La lista delle cinquecento persone più ricche del mondo, per esempio, assume il fatto che la ricchezza sia uguale all’accumulazione di denaro: non provano a misurare la ricchezza nei termini della sapienza della gente o delle sue relazioni affettive o dell’entusiasmo per quello che fanno. La ricchezza sparisce dalla vista e la merce-ricchezza occupa il suo posto. Questo, che esiste sotto forma di un’altra cosa, esiste “nel modo di essere negata” prendendo in prestito la classica frase di Richard Gunn.

Il fatto che qualcosa esista come la negazione di se stesso non significa che abbia cessato di esistere. Al contrario, inevitabilmente, lotta contro la sua stessa negazione. La dominazione è inconcepibile senza resistenza. Lo stesso fatto che pensiamo alla rivolta significa che la dominazione non è totale. La tensione è un antagonismo tra il contenuto e la forma, tra ciò che viene negato e quello che lo nega.

Si tratta di un antagonismo tra verbi, non tra sostantivi: una lotta attiva. Se la dominazione trova resistenza (come accade sempre), è una dominazione attiva: è sempre una lotta aperta il cui esito finale non è mai scontato. Di più, il fatto che non possa mai rimanere tranquilla è una caratteristica specifica della dominazione sotto il capitalismo. Il fatto che il valore sia determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrre una merce comporta che l’arricchimento della capacità umana di produrre sia trasformato in una intensificazione del lavoro astratto, un’accelerazione moltiplicata all’ennesima potenza. La dominazione non può permettersi il lusso della quiete di un sostantivo: può solo essere un dominare che lotta costantemente per trovare una più profonda subordinazione della vita al suo proposito di autoespandersi. E se dominare è un verbo, allora, lo sono chiaramente anche resistere e ribellarsi.Le forme delle relazioni sociali devono essere intese come forme-processi, processi di formazione e non come un fatto stabilito. Allora, denaro come monetizzare, Stato come statalizzare, merce come mercificare, essere umano come umanizzare, Italia come italianizzare, e così via. Tutti i sostantivi occultano lotte feroci, scontri quotidiani e, spesso, sanguinosi.

L’accumulazione primitiva, costituzione ed esistenza

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È questa una questione chiave per la teoria e la pratica marxiste. Lo si può vedere nel dibattito sull’accumulazione primitiva. Nell’interpretazione tradizionale, l’accumulazione primitiva fa riferimento al periodo delle lotte che danno luogo all’instaurazione delle relazioni sociali capitaliste, una fase storica seguita da una continua normalità capitalista. In questa interpretazione c’è una chiara separazione tra la costituzione e l’esistenza. L’accumulazione primitiva qui si riferisce al momento della costituzione delle forme delle relazioni sociali (valore, Stato, capitale e le altre), seguito da un periodo in cui queste forme acquisiscono relativa stabilità. Se fosse così, allora, queste forme potrebbero essere intese come sostantivi: sostantivi con una limitata vita storica, ma sostantivi, comunque, con un certo grado di stabilità fintanto che il capitalismo sopravvive.

Marx esprime graficamente questa posizione tradizionale nei Grundrisse: “Le condizioni, dunque, che precedevano la creazione del pluscapitale I, o quelle che esprimevano la formazione del capitale, non rientrano quindi nella sfera del modo di produzione a cui il capitale serve da presupposto; esse stanno alle sue spalle come livelli storici preliminari, allo stesso modo in cui i processi attraverso i quali la Terra è passata dallo stato fluido di mare di fuoco e di vapori alla sua forma attuale, si collocano in una fase che precede la sua vita di Terra formata”. La costituzione è chiaramente separata dall’esistenza. Tuttavia, quelli di noi che vivono nei pressi di vulcani fumanti (nel mio caso, a 40 chilometri dal Popocatépetl) sanno che la transizione geologica di un mare liquido di fuoco allo stato di terra solida non è tanto chiara come suggeriva Marx: noi abbiamo il fermo sospetto che questo sia ancora più certo nel caso delle relazioni sociali. Sotto l’apparente solidità del denaro, c’è un agitato liquido che bolle. Non può darsi per assodato che il denaro sia una forma delle relazioni sociali universalmente rispettata: in quale altro modo potremmo considerare la grande quantità di energia dedicata alla sua realizzazione? Il denaro – come lo Stato, la donna, l’Argentina, il Messico, la rendita – è continuamente messo in discussione, costantemente contrastato: l’esistenza di tutte queste relazioni sociali dipende dalla loro permanente ricostituzione. Sebbene ci possano essere delle differenze significative in funzione del tempo e del luogo, Marx ha sbagliato ad indicare una separazione tanto radicale tra costituzione ed esistenza.

La forma capitalista delle relazioni sociali, questo irrigidimento o congelamento delle interazioni sociali in modelli stabiliti, è dunque un processo, un verbo, un’azione del congelare o formare il fare umano che trova sempre una opposizione. La genesi non si riferisce solo al passato ma a un processo costante del generare e rigenerare le forme sociali; la critica genetica non è solo il portare alla luce il passato ma anche il presente. Se la ricchezza esiste nella forma di una accumulazione di merci, vuol dire che c’è una permanente mercificazione della ricchezza della creazione umana, e che questa attività di mercificare incontra una resistenza: la spinta costante della creazione umana contro la mercificazione e il suo incessante superamento degli argini. In altre parole, se la ricchezza esiste nella forma dell’accumulazione di merci, questo inevitabilmente comporta il fatto che non esista solo in quella forma ma anche contro-e-oltre l’accumulazione di merci. Non esiste al di fuori dell’accumulazione di merci, come qualcosa di intoccabile: questa idea potrebbe condurci a un essenzialismo astorico di scarsa utilità. Non galleggia nell’aria: è lotta viva e quotidiana.

La ricchezza della nostra attività è contenuta nella forma merce ma lottaanche contro di essa e, almeno in modo sporadico, rompe come un vulcano la forma merce stabilendo altri modi di interazione. In effetti, entrambi i lati dell’antagonismo si costituiscono grazie all’antagonismo: è evidente che l’accumulazione di merci si costituisce attraverso la lotta per mercificare la ricchezza, ma anche il contrario è certo: la ricchezza viene costituita grazie alla lotta contro-e-oltre la forma merce. E quello che è certo per la ricchezza, lo è anche per il lavoro concreto e per la comunalità o comunitarietà: non solo sono imprigionate nelle loro forme capitaliste ma spingono contro-e-oltre esse.

Possiamo fare un passo in più. Ciò che esiste nella forma di un’altra cosa, ciò che esiste “nel modo di essere negato” è il substrato occulto di quello che lo nega, e pertanto la sua crisi. Quel che appare in superficie: merci, lavoro astratto, capitalismo, non è nulla senza ciò che lo nega, vale a dire, ricchezza, lavoro concreto, comunalità. Il signore dipende dai suoi servi, sempre. È una dipendenza mutua, però la relazione è altamente asimmetrica. Senza i suoi servi il signore non è nulla, è incapace di farsi da mangiare o di prepararsi il letto, mentre il servo, grazie al suo lavoro concreto, è potenzialmente tutto, come hanno segnalato Hegel e La Bóetie, tra gli altri. Il potere, il sostantivo, è visibile ma dipende da  un invisibile essere capaci di. La possibilità di un cambiamento radicale sorge dal basso, da ciò che sta nascosto, da ciò che è latente, da quello da cui il potere dipende. È in questa dipendenza che si trova la chiave per comprendere la crisi del dominio. La teoria di Marx sulla tendenza alla caduta del saggio di profitto è un tentativo per comprendere come la dipendenza capitalista dal lavoro (dalla trasformazione dell’attività umana in lavoro) si manifesti a sé stessa come la tendenza alla caduta del saggio di profitto. Il latente è la crisi dell’apparente, il verbo è la crisi del sostantivo.

Siamo la crisi del capitale

Basta!, dunque, con l’idea assurda e degradante che i colpevoli della crisi siano i capitalisti! Siamo noi la crisi del capitale. Noi che non solo siamo invisibili ma latenti, la latenza di un altro mondo. Noi che siamo i verbi che i sostantivi sono incapaci di contenere. Noi, il cui fare concreto non entra nel lavoro astratto, la cui ricchezza deborda l’immensa accumulazione delle merci, noi, con la nostra comunalità che irrompe attraverso la falsa comunità di individui e cittadini. Noi, quelli che non saremo contenuti, siamo il substrato vulcanico sul quale tutto l’edificio del potere è costruito in modo tanto fittizio. Noi, che ci riappropriamo della terra semplicemente perché è nostra.

Il mettere in comune è il movimento della crisi. La crisi è più visibile con la caduta del saggio di profitto, con la caduta del tasso di crescita, con la crescente disoccupazione; sotto queste manifestazioni giace l’incapacità da parte del capitale di subordinare completamente il lavoro umano alla logica della sua dinamica. Sotto le statistiche ci sono eruzioni vulcaniche di insubordinazione, c’è la moltiplicazione dei No, il superamento degli argini di questi No in “No, noi non lo accettiamo, vogliamo fare le cose in un modo diverso, nel modo che decidiamo noi”. Il parco Navarino, nel centro di Atene, dove la gente ha abbattuto le pareti di un parcheggio per creare un parco comunitario, un luogo per giocare con i bambini, coltivare vegetali e ascoltare musica, un luogo per chiacchierare e fare la rivoluzione. Gran parte dello Stato del Chiapas, dove le segnalazioni stradali proclamano: “Fuori il malgoverno, qui comanda il popolo”. Le fabbriche recuperate in Argentina, dove i lavoratori hanno mostrato che c’è vita senza i padroni: Abahlali BaseMjondolo, il movimento degli abitanti delle baracche diDurban (Sudafrica) che sta creando un comunismo vivente nei suoi insediamenti. E altri ancora, ancora altri, altri ancora. Abbiamo tutti esempi da fornire, possiamo riempire pagine e pagine con la loro elencazione.

I (molti e diversi esempi di, ndt) mettere in comune[3], grandi e piccoli, spesso tanto piccoli da essere invisibili perfino per i loro protagonisti, eppure cruciali perché la crisi, probabilmente, non potrebbe essere spiegata in termini di resistenza aperta ma può certamente essere compresa come il risultato di un effetto combinato tra l’insubordinazione aperta e una costante onnipresente non subordinazione,  un costante e onnipresente rifiuto di sottomettere le nostre vite nella loro totalità alle sempre più intense esigenze della produzione capitalista.  I (molti esempi di azioni del, ndt) mettere in comune di molti tipi differenti, tutti sperimentali, colmi dell’attiva fragilità dei verbi, tutti contraddittori, con un piede intrappolato nel fango immondo del capitalismo mentre si tenta di raggiungere qualcosa in più, un fare differente, una ricchezza differente, un diverso camminare insieme.

Mettere in comune, quindi, non solo come verbo ma anche al plurale: “comunizares” (le molte e diverse esperienze di “mettere in comune”, ndt). Un flusso di mille ruscelli mormoranti e di torrenti silenziosi, che vanno insieme e poi si separano ancora, scorrendo insieme verso un oceano potenziale. Non c’è spazio, qui, per l’istituzionalizzazione, nemmeno per quella informale. L’istituzionalizzazione è sempre un tentativo di bloccare il flusso, di separare l’esistenza dalla costituzione (non è questo il significato di istituzionalizzazione?), per sottomettere il presente al passato, per rendere quieto il flusso del fare, mentre l’azione di mettere in comune è l’opposto: è l’impulso di liberarci dalla determinazione del passato, di raggiungere un’articolazione esplicita all’unità della costituzione e dell’esistenza. Non si tratta del comunismo-nel-futuro ma di una molteplicità di “mettere in comune”, qui e ora.

Questo significa che non ci può essere una rottura radicale del capitalismo? Naturalmente, no. Dobbiamo rompere la dinamica del capitale, ma il modo di farlo non è quello di proiettare il comunismo nel futuro ma riconoscere, creare, espandere e moltiplicare i mettere in comune (o le crepe nel tessuto della dominazione capitalista) e incoraggiare la loro confluenza. È difficile per me immaginare il superamento del capitalismo se non attraverso la confluenza di questi mettere in comune, in un torrente che escluda il capitale come forma di organizzazione e lasci senza effetto la sua violenza. Allora, forse potremmo pensare che sia finita la traversata e che siamo giunti a casa, ma il luogo in cui siamo giunti non può essere un comunismo, ma un costante mettere in comune in un clima più favorevole (di fatto, la casa non è mai il sostantivo che i bambini immaginano ma una ricreazione costante di quelli che ne fanno parte). Il mettere in comune è, semplicemente, la riappropriazione di un mondo che è nostro, o ancora meglio, la creazione di un mondo che è nostro, nel quale articoliamo praticamente l’unità del fare e ciò che viene fatto, della costituzione e dell’esistenza, la comunalità dei nostri fare.

Mettiamo in comune, ovunque ci troviamo, adesso.

 


“Comunizar” nella versione pubblicata da www.herramienta.org

in Argentina. Abbiamo preferito “mettere in comune” a una ipotetica traduzione letterale, “comunizzare”, perché essa ci sembrava richiamare posizioni assai lontane dal corpo espresso nel suo complesso in questo scritto e per evitare il rischio di una certa cacofonia connessa alle troppe distorsioni di parole derivanti dalla radice “comune” ndt.[1]

[2] “comunal” nella versione argentina.

[3] “Comunizares” nel testo pubblicato su Herramienta, ndt.

Bibliografía

Gunn, Richard, “En contra del materialismo histórico: el marxismo como un discurso de primer orden”. En: Bonnet, Alberto / Holloway, John / Tischler, Sergio (comps.): Marxismo abierto, una visión europea y latinoamericana. Vol. I. Herramienta: Buenos Aires, 2005, págs. 99-155.

Marx, Karl, Elementos fundamentales para la crítica de la economía política. Borrador 1857-1858 (Grundrisse). 18ª edición. México: Siglo XXI, 2001.

–,  El capital. Vol. 1, libro primero. México: Cartago, 1983.

Questo saggio è stato pubblicato sulla rivista argentinaHerramienta http://www.herramienta.com.ar/Titolo originale: ¡Comunicemos! 

Traduzione per Comune-info: m. c.