R-evolution 2019. Nel segno delle donne

il: 9 Gennaio 2020

da :https://ilmanifesto.it/r-evolution-2019-nel-segno-delle-donne/

di M. Boccitto

Parla con lei. Un anno di mobilitazioni sociali tutt’altro che virtuali, con assenza di una leadership in senso tradizionale e un forte protagonismo femminile in senso anti-patriarcale. Dal Sudan al Cile, dall’India indignata contro gli stupri alle marce guidate da Greta Thunberg per salvare il pianeta. Ricordando la lotta di Almaas Elmany, una voce pacifista zittita dalla guerra in Somalia

Il 2019 che abbiamo visto sfilare sulle strade di Algeria, Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Egitto, Francia, Guinea, Hong Kong, India, Iran, Iraq, Libano, Marocco, Russia, Sudan e via proseguendo fino allo Zimbabwe, è un mosaico complesso di mobilitazioni sociali particolarmente intense ed estese nel tempo, più tessere di quante se ne possano rimontare o fotografare in queste pagine.

Som-movimenti con genesi, rivendicazioni, forme e obiettivi in parte comuni – lotta dura alle austerità liberiste e agli autoritarismi – e in parte non riducibili ad altro, se pensiamo alla variante cinese nel caso di Hong Kong, ai Fridays for future planetari contro il cambiamento climatico, all’aggravante femminicidi e stupri che ha indignato Argentina e India.

Con il web sempre meno surrogato e più volàno di piazze men meno che virtuali, gli elementi di novità sono forse due, o almeno uno: da una parte la tendenza a dotarsi di una leadership liquida o a non averla proprio, fattore che presenta nell’immediato i vantaggi del bersaglio mobile ma complica un po’ l’approdo alla fase 2, quando ci si arriva; dall’altro il protagonismo femminil-femminista, che soprattutto nei paesi di tradizione islamica ha costituito un segnale di vistosa discontinuità.

Valga per tutte il Sudan, dove la prima legge ad essere abolita è stata quella che regolava rigidamente come le donne dovessero vestirsi e comportarsi in pubblico. Il minimo sindacale, dopo otto mesi turbolenti in cui le donne hanno tenuto la piazza magnificamente, anche lontano dagli obiettivi che cadevano in estasi di fronte alla figura di bianco vestita della 22enne Alaa Salah, immortalata sul tetto di un’auto mentre arringa la folla. Non se ne sono tornate a casa neanche quando il regime ha accettato di sacrificare il presidente al-Bashir e pezzi pregiati del suo trentennale apparato di potere; incontentabili, hanno piantato le tende di fronte al palazzo delle Forze armate e hanno atteso che maturassero i termini di un accordo possibile, dopo lo stillicidio repressivo culminato nel massacro del 3 giugno.

Manca in questa galleria il Brasile che nel 2018 si era svelato drammaticamente nel segno di Marielle Franco, perché è sotto choc a un anno dall’insediamento presidenziale di Jair Bolsonaro o perché, come dice la scrittrice Vanessa Barbara sul New York Times, ha tanti di quei problemi che potrebbero finire per annullarsi l’un l’altro: che senso ha lottare contro la riforma delle pensioni se moriremo tutti giovani per colpa dei pesticidi? A oggi ci sono 382 nuove possibilità in tal senso, tante quanti sono i prodotti sdoganati quest’anno dal governo brasiliano per disboscare, defogliare, corazzare chimicamente l’agricoltura estensiva. Non tutte sostanze bandite in Europa, è vero, ma è un punto a sfavore di Bruxelles e non a vantaggio di Bolsonaro. Che da par suo detesta, in buona compagnia, la figura di Greta Thunberg.

Torino, 13 dicembre: Greta Thunberg in piazza contro il surriscaldamento globale (LaPresse)

Greta e persino Thunberg sono forse le uniche due parole che capirebbe di questo articolo una bimba di sei anni. Greta con la sua dirompenza anche anagrafica e l’imperativo per una transizione come quella plasticamente suggerita in quel suo muoversi lentamente da un luogo all’altro della nuova protesta ecologista globale.

Ma la guerra non fa schifo (solo) perché contribuisce al global warming. L’impatto sul pianeta dell’aereo su cui sarebbe dovuta salire la pacifista somalo-canadese Almaas Elmany se non fosse stata uccisa da un proiettile «vagante» nell’unica zona sicura di tutta Mogadiscio, l’aeroporto, è imparagonabile al disastro della sua voce silenziata. E l’assenza della Siria e dello Yemen tra le foto di queste pagine non deriva dalla mancanza di motivi per protestare, ma dalla guerra come estemporaneo e tremendo pacificatore sociale. D’altro canto anche trasferire alle donne porzioni di potere oltre ogni ragionevole quota rosa, come ha fatto in Etiopia il governo di Abiy Ahmed, non ha impedito repressioni sanguinose nelle regioni oromo meno in sintonia con l’uomo che ha vinto il Nobel per la pace 2019.

Un anno contraddittorio di corpi politici performanti, quindi, spesso in debito di «senso» e di «indirizzo», come ha suggerito Tommaso Di Francesco su questo giornale. Stante l’incommensurabile sconfitta delle vite reclamate anche quest’anno dai sistemi repressivi, è stato un anno in cui si è anche vinto. Se saranno o meno vittorie di quelle che scivolano come sabbia tra le dita, abbiamo tutto il 2020 per capirlo.