No hay Paz

il: 13 Marzo 2020

di Francesca Caprini – 6 marzo  Apartadò – Colombia

Il Presidente della Colombia Ivan Duque parla ad una platea di impresari dell’industria bananera nella città di Apartadò, in Antioquia, promettendo loro appoggio e fondi per il nuovo porto e l’autostrada per Medellin.

E’ la mattina del 29 febbraio e l’incontro pubblico “Costruendo il Paese” è da poco iniziato: ”Ascolteremo gli abitanti per capire le loro necessità”,  sta dicendo el mandatario. Siamo sul Golfo dell’Urabà, al confine con Panama. Terra densa, con oltre due milioni di sfollati, dove negli anni ’90 si formava il gruppo paramilitare di estrema destra Autodefensas Unidas de Colombia, al soldo (anche) dei bananeros – fra cui la Chiquita, inquisita e multata nel 2007. Oggi il Clan del Golfo – come viene chiamata la rete di organizzazioni neoparamilitari urabeñas  – ha un controllo capillare del territorio. Circa 1300 le persone arruolate, dicono fonti dell’intelligence militare. Cifre al ribasso.  Sotto il tendone allestito per l’evento, Duque enfatizza anche  l’impegno del Governo per la pace: ”E’ stato fatto più ora che negli ultimi 24 mesi”, dice.

Quasi nello stesso momento, a pochi chilometri di distanza, a San José de Apartadó sparavano a morte contro il contadino Amado Torres, di 49 anni. I famigliari denunciano subito la mano paramilitare delle Autodefensas Gaianistas de Colombia (AGC). La polizia si rifiuta di andare a recuperare il corpo, raccolto dal figlio Luis Alberto. A poca distanza, anche il consigliere comunale Didian Agudelo – desaparecido da quattro giorni – viene trovato strozzato con la sua camicia. La famiglia accusa l’esercito: “Lo hanno portato via contro la sua volontà”.  Duque non fa cenno dei due omicidi, prosegue il suo discorso. “Qualcuno avverta il Presidente”, twitta il fotografo colombiano Jesus Abad.

Con Amando e Didian la cifra degli attivisti assassinati dall’inizio dell’anno saliva a 43, più di 700 dalla firma degli accordi di pace, nel 2016. Ma mentre scriviamo le cifre si rincorrono – giovedì 5 marzo assassinata la scorta del leader afro Aarley Chalá. In serata, la ex combattente fariana Astrid Conde, a Bogotà.

Alberto Brunori – Commissario Onu Colombia

Poco prima dell’incontro ad Apartadò, Duque aveva rilasciato una dura dichiarazione in risposta alla presentazione del report annuale Onu sui diritti umani, che per voce di Michelle Bachelet e del commissario ONU in Colombia Alberto Brunori, segnalava: “E’ la peggiore situazione dal 2014”. Duque aveva smentito i risultati del report, parlando di ingerenze inaccettabili; il suo partito – il Centro Democratico – chiedeva la chiusura dell’ufficio Onu in Colombia.

Sommerso da critiche internazionali – anche dall’Italia – il presidente aveva smorzato successivamente i toni. Salvo poi negare il visto per  l’ingresso in Colombia al relatore Speciale Onu per i diritti umani, Michel Forst –  secondo quanto denunciato dallo stesso – a seguito della presentazione del suo report mercoledì 4 marzo a Ginevra: “La Colombia è il Paese latinoamericano con maggiori uccisioni di difensori di diritti umani di tutto il Continente”, aveva detto Forst. Duque ha negato di aver posto veti.

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Quando arriviamo alla Comunità di Pace di San Josè il funerale di Amando Torres è appena terminato. “La famiglia ha voluto che fosse seppellito qui, nel cimitero della comunità”, ci racconta  German Graciano Posso, uno dei fondatori della Comunità: “C’era molta gente, anche gli indigeni della vicina comunità Embera – ci dice – La figlia ha parlato duramente, mentre sotterravano il padre. Ha avuto coraggio, perché c’erano molti paracos infiltrati”.

San Josè dal ’97 si è dichiarato territorio neutrale. Dopo uno sfollamento forzato, nella notte del 27 febbraio. E dopo aver dovuto raccogliere i resti di giovani e bambini – il più piccolo di pochi mesi – smembrati dai paramilitari, in quella furia senza umanità che caratterizzava le stragi in quegli anni. San Josè contava ormai 300 morti, fra i suoi. La costruzione di una zona di pace è stata un atto di coraggio per provare a dare un futuro a chi restava. E da allora è diventata un simbolo.

Ha gli occhi bassi, German, e il cappello di paglia pigiato sulla testa. E’ stanco, mentre ci racconta la situazione che questo gruppo di famiglie – circa 130 persone – sta affrontando negli ultimi tempi, assieme alle comunità sparse per il territorio: “Amando è stato ucciso perché non aveva pagato la vacuna (il pizzo) ai paramilitari. Loro controllano tutto: ti dicono quello che puoi fare, se puoi lavorare. Reclutano i giovani, anche di 13/14 anni. Noi della Comunidad de Paz resistiamo, lo abbiamo scelto anni fa – il 23 marzo festeggiamo 23 anni dalla fondazione – ma io non vedo prospettive. Stanno mettendo in atto uno sfollamento “goccia a goccia”: ci spaventano, ci uccidono. Sperano che così lasceremo il campo libero alle multinazionali del carbone”.

Camminiamo per la Holandita, che della comunità di pace è il cuore pulsante. E’ pieno di fiori, di animali, “alcuni salvati dalla comunità”, ci raccontano, mentre un’asina senza un orecchio ci supera indifferente. El Bole – così lo chiamano – si occupa dei macchinari: ci mostra come producono il miel de caña, il cacao, il riso: “Siamo autosufficienti, e i pochi soldi che abbiamo, li reinvestiamo per la collettività – ci spiegano la sera in assemblea – così non ci possono chiedere il pizzo. Anche se i paracos ci hanno derubato parecchie volte”.  “Da quando le Farc se ne sono andate, il territorio è stato occupato  delle Autodefensas Gaitanistas de Colombia (AGC) – ci continua a raccontare German, che è stato vittima di un attentato tre anni fa e ha 17 parenti ammazzati – vivo nella paura, ma vado avanti perché dobbiamo formare le nuove generazioni alla resistenza e alla pace. Il mio incubo è che non mi facciano più parlare. Per un attivista, il silenzio è la vera morte”.


Da Apartadò proseguiamo gli incontri che hanno come fulcro l’anniversario della “Operaciòn Genesis”, lo sfollamento forzato per mano di esercito e paramilitari nel ’97 per il quale lo Stato colombiano – con una sentenza storica – è stato condannato nel 2013 dalla Corte Interamericana DDHH. Con associazioni delle vittime, organizzazioni internazionali, giornalisti, leader e lideressas comunitari e la Commissione di Justicia y Paz – cerchiamo di raggiungere la Zona Umanitaria Nueva Vida. Occorre  attraversare il braccio di mare del Golfo di Urabà, e poi risalire il fiume Cacarica,  nel bacino del Bajo Atrato, regione del Chocò. Le nostre 5 lance vengono bloccata dalle motovedette dell’esercito in mare aperto, non vogliono farci passare, e ci lasciano cuocere sotto il sole per tre ore. La pressione delle organizzazioni per i diritti umani si fa sentire e la Fuerza Naval è costretta a farci proseguire, ma siamo di nuovo fermati e sottoposti ad una perquisizione. Le rive del Rio Cacarica sono costellate di palafitte di legno, piccoli caserios di comunità, per lo più afrocolombiane. Ci chiedono di non fotografare, non è sicuro. Risaliamo, questa volta in canoa, per stretti canali nel pieno della foresta, che poco dopo dobbiamo attraversare a piedi. Quando arriviamo a Nueva Vida, di sera, militari stazionano all’entrata della comunità. “Ci sono anche i paramilitari”, ci spiega chi ci accompagna. Stanno apertamente insieme all’esercito.

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Lì incontriamo Ubaldo Zuñiga alias ‘Pablo Atrato’ ex comandante del fronte 57 delle Farc, oggi membro del’omonimo partito.  Lui in queste zone ha combattuto per vent’anni, da qui il suo nome di battaglia:”La gente è prigioniera nel proprio territorio – ci dice – in Cacarica sono 5/600 gli uomini delle AGC, in Chocò 3000. Lo Stato sono loro, al servizio del modello estrattivista del Governo. I narcos vengono usati contro la gente per sfollarla”.

Gli ex combattenti sono oggetto di una rappresaglia durissima – secondo Indepaz sono 174 quelli uccisi dall’Accordo di Pace, 13 solo quest’anno – e anche Ubaldo ha subito attentati: “Non stanno rispettando gli accordi presi all’Avana -spiega l’ex Farc- che avevano la redistribuzione della terra al centro, sia per le comunità che per noi guerriglieri, oggi impegnati soprattutto in attività agropecuarie e cooperativismo. Di 250 richieste avanzate per progetti collettivi – la nostra visione politica era ed è basata sulla gestione partecipata e anticapitalista – ne sono stati approvati 49. Ma la gente resiste”. Il prezzo però è molto alto, e l’esiguo numero di deputati ottenuto dal partito delle FARC – nato dopo la consegna delle armi nel 2017 – non facilita l’avanzare del progetto dell’ex guerriglia: “Anche se il processo di pace è il meglio che ci poteva accadere – insiste Ubaldo – la naturale evoluzione del nostro progetto politico”. Parte dell’ex guerriglia fariana ha però ripreso le armi, con Ivan Marquez che l’estate scorsa ha annunciato l’avvio della Segunda Marquetalia – il luogo dove storicamente nacquero le Farc: ”Non li giudico – dice alias Pablo – vista la situazione di inadempienza dello Stato. Alcuni compagni – anche se convinti della necessità di lasciare le armi – sono stati effettivamente costretti a tornare sulle montagne”. Poi c’è l’Eln, che non ha accetto la pace:” Gli elenos hanno una struttura federale – spiega – senza un coordinamento centrale. Questo gli espone al pericolo di infiltrati, vedasi l’attentato dell’anno scorso a Bogotà (43 cadetti della scuola di polizia uccisi da un’autobomba, attentato rivendicato dall’Eln)”. Il governo continua a negare la persecuzione contro gli ex combattenti: ”Dobbiamo prendere una posizione più forte. Sia nel Congresso, che a livello internazionale. Dobbiamo coordinarci fra di noi. Perché la matanza dei nostri compagni – ammazzati come cani nelle strade, senza nessun onore – deve fermarsi, sennò finiremo come la Union Patriotica, sterminata negli anni ’80 (5000 morti ammazzati). Noi avevamo un progetto, una visione sociale, e il Processo di Pace è la nostra occasione per poterlo mettere in pratica, prima che le multinazionali si mangino il nostro Paese, sulla pelle della gente”.