5 settembre, giornata della Donna Indigena.

il: 6 Settembre 2013

Il 5 settembre, giornata dedicata alle donne indigene come omaggio  alla loro forza di resistenza in nome della libertà, è l’anniversario della guerriera aymara Bartolina Sisa.  Bartolina  si oppose con fierezza ai colonizzatori spagnoli per la libertà dei popoli andini e per questo brutalmente assassinata il 5 settembre del 1782.  

Da giovane, insieme ai suoi genitori, si dedica al commercio di foglie di coca e per questo viaggia per i diversi villaggi delle Ande prendendo sempre più coscienza della situazione di sfruttamento e maltrattamento degli indigeni ad opera dei colonialisti europei.Un evento molto importante della sua vita è l’incontro con Tupak Katari, Tupac Amaru e Micaela Bastidas con i quali intraprende il cammino per la liberazione del popolo aymara e quechua, formando un esercito di migliaia di indigeni che a partire al 1781 insorge contro gli oppressori. Alla battaglia, Bartolina partecipa in prima persona, lottando con caparbietà e ottenendo il ruolo di Virreina per le sue capacità di prendere decisioni, per il suo senso di responsabilità e per le sue doti militari.Il 2 luglio 1781 mentre si dirige verso l’accampamento El Alto de Pampajasi viene catturata in un’imboscata dai suoi stessi compagni e condotta come prigioniera di guerra degli spagnoli. Il 5 settembre dello stesso anno è condannata a morte con Gregoria Apaza: viene impiccata dopo essere stata violentata, frustata e dopo aver subito altre torture fisiche e morali. Dopo la sua morte il corpo viene squartato e la sua testa messa in mostra nei diversi villaggi per terrorizzare gli indigeni e dissuaderli dalla ribellione. Il pensiero Bartolina Sisa è considerata in tutta l’America Latina un’eroina nazionale che con il suo coraggio ha contribuito a liberare la sua terra dai colonizzatori europei. La sua lotta nasce dal desiderio di salvaguardare la cultura andina e,soprattutto, di porre fine ai maltrattamenti dalla volontà di e alle brutalità commesse dagli spagnoli nei confronti delle popolazioni indigene. Attualmente la Federazione nazionale delle donne boliviane è intitolata a lei.

In America latina e centrale la componente machista  ancora oggi rappresenta un aspetto importante all’origine della maggior parte dei casi di femminicidio nella regione. Ne rappresenta un fattore culturale o di costume, ma che è solo la facciata, a volte tragica, di un rapporto a svantaggio della donna in termini di accesso al lavoro e agli studi e quindi di indipendenza economica.

Volendo esprimere il concetto con le parole della dichiarazione dell’ONU del 1993, il machismo rappresenta uno di quei meccanismi “per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. In Messico ad esempio, la diminuzione del mercato dell’agricoltura tradizionale, dovuto alle importazioni, aumenta le migrazioni stagionali o definitive delle donne di campagna verso lavori giornalieri, mal remunerati e a breve scadenza. Il lavoro stagionale allontana le donne dai loro figli, a meno che i figli stessi non le accompagnino nei loro accampamenti di fortuna, senza igiene, né servizi sanitari, né scuole. Le donne incinte lavorano a loro rischio e pericolo, e quelle che hanno partorito tornano subito a lavorare, portando con loro i neonati nei campi. Tutti sono esposti ai concimi chimici e ai pesticidi. La legge obbliga i padroni ad assicurare il 5% di questi braccianti agricoli, ma tale quota non viene rispettata, con la conseguenza che le donne rimangono sistematicamente tagliate fuori. Si stima che il 35,5% della forza lavoro impiegata nel settore agricolo per la produzione di frutta e verdura sia costituita da donne. In generale, la situazione degli indigeni è ancora più grave e le donne indigene sono quelle che pagano il prezzo più alto.

Durante gli anni Novanta in ogni zona del pianeta, le donne appartenenti ai gruppi economicamente più deboli sono stati i soggetti più svantaggiati socialmente. Il miglioramento degli indicatori macroeconomici si ottiene, a buon conto, a spese delle donne. Sono loro, ad esempio, che assorbono il colpo della perdita di terreno dello Stato e del riequilibrio dei conti ufficiali della nazione mostrati ai finanziatori. Nel vocabolario economico questo fenomeno si definisce esternalizzazione dei costi, che nella fattispecie sono dei costi sociali invisibili. 2/3 dei due miliardi e mezzo di persone povere, che vivono cioè con meno di due dollari al giorno, sono donne.

Le violenze di genere testimoniano comunque che le donne sempre e in ogni latitudine sono soggette a una doppia forma di discriminazione, quella di genere e quella di classe (nel caso delle donne migranti si aggiunge la componente discriminatoria della razza). Sono le donne delle fasce sociali più povere, quelle delle campagne, le contadine, le donne indigene, che subiscono più violentemente ogni forma forma di discriminazione. Sebbene studi recenti rivelano che il numero dei femminicidi in America latina e centrale siano in aumento –nonostante lo siano anche gli indici di crescita economica e nonostante la regione sia avviata ormai verso una fase di consolidamento della democrazia rispetto ai decenni passati, e quindi non sono direttamente correlati alla povertà e povertà estrema — è evidente che il sistema capitalista che concede il potere dei capitali e dei mezzi di produzione, generalmente gli uomini, può considerarsi come punto focale e causa della violenza di genere. Come ebbe a dire una volta Hugo Chávez, presidente del Venezuela, il capitale è machista”.

Oltre alla tesi marxista dell’origine della violenza di genere che inquadra lo sfruttamento, la subordinazione e la discriminazione delle donne relativamente alla struttura capitalista e patriarcale, altri studiosi fanno risalire l’origine delle problematiche di genere in America latina alla conquista e alla colonizzazione spagnola.

Oggi, invece, a determinare la drammaticità di una situazione di per sé già gravissima è l’aumento degli alti indici di violenza in generale che si registrano nella regione, la diffusione ormai fuori da ogni controllo del narcotraffico  e della criminalità ad esso collegata, che trascina con sé un numero indescrivibile di violenze commesse contro le donne e di femminicidi. A questo vanno aggiunte la fragilità e l’inefficienza strutturale dei sistemi giudiziari e della pubblica sicurezza.

Moni Pizani, rappresentante del Fondo di Sviluppo delle Nazioni Unite per la Donna – Regione Andina, in un recente incontro tenutosi a Panama ha affermato che  in America latina più del 40 per cento delle donne sono state vittima di violenza fisica e il tasso dei maltrattamenti psicologici a danno delle donne nelle relazioni di coppia si colloca in un 50 per cento.

Tuttavia la situazione è tragica soprattutto in quello che lei definisce ’triangolo nero’ e cioè la regione compresa tra Guatemala, Salvador e Honduras. Il Centroamerica infatti, è l’area dove più forti e violente si manifestano le contraddizioni tra i modelli che provengono dal nord e che spingono verso un ’progresso’ troppo accelerato in ogni aspetto della vita umana e invece i ritmi naturali caraibici più lenti e ’antichi’.

In Guatemala, uno dei paesi dove la violenza contro le donne raggiunge proporzioni drammatiche, negli ultimi dieci anni 5mila donne sono state sequestrate e assassinate, nella maggior parte dei casi dopo essere state violentate, torturate e mutilate; solo nel 2010 secondo dati ONU sono state invece assassinate 675 donne. In Salvador nello stesso anno, 580. In Honduras, nel 2008 sono state 380, e il numero è andato in aumento negli anni successivi al 2009, quando c’è stato un colpo di Stato e sono incrementati anche gli omicidi e le violenze a sfondo politico.

In Colombia la Corte per i Diritti umani indica come “le donne indigene colombiane vivono una situazione di grande discriminazione a causa della loro condizione femminile e indigena, che le rende ancora più vulnerabili agli impatti del conflitto armato, dello spostamento forzato, della povertà e dell’emarginazione strutturale. La Corte Costituzionale colombiana ha riconosciuto alcune manifestazioni di questa situazione nell’Auto 092 del 2008, con il quale, tra le altre cose, ordinò al Governo Nazionale di creare e implementare un Programma di Protezione della Donna Indigena Profuga. Dopo più di due anni dall’adozione dell’Auto, questo programma non è stato ancora creato.”
Si sottolinea inoltre che “una delle manifestazioni più preoccupanti dell’impatto del conflitto armato sulla donna indigena è la violenza sessuale, descritta in dettaglio nell’Auto 092 della Corte Costituzionale, e commessa da tutti gli attori armati, in quanto considerata arma da guerra. Lo stupro, la violenza sessuale, la prostituzione forzata, la schiavitù sessuale e l’innamoramento utilizzato come tattica bellica colpiscono con particolare severità le donne indigene, che sono maggiormente esposte ai crimini degli attori armati a causa delle molteplici discriminazioni che subiscono”. Un’eroina dei nostri tempi, in Colombia, è Angelica Bello, la cui triste fine rappresenta purtroppo il simbolo della coraggiosa resistenza delle donne colombiane, che spesso anche se bambine o giovanissime donne vengono sfruttate anche sessualemnte nell’impunità generale.

L’unico aspetto positivo, anche se contraddetto dai dati rispetto all’impunità, il fatto che in America latina e centrale si sono fatti enormi passi in avanti rispetto a quella che è la tipificazione del femminicidio nel Codice Penale dei vari paesi, Guatemala e Costa Rica già dal 2008 e 2007, poi il Cile nel 2010, due stati del Messico, l’Argentina in discussione in questi giorni, il Perú, e infine la Bolivia, dove una legge contro il femminicidio è stata recentemente varata.

Il coraggio delle donne boliviane, che a Bartolina Sisa hanno intitolato il sindacato delle donne cocalere, si vede nelle strade e nelle riunioni serali, nei corsi di alfabetizzazione alle quali le donne partecipano, dopo estenuanti giornate di lavoro nei campi o nei mercati cittadini.”Le donne boliviane si prendono le loro responsabilità. Lo hanno dimostrato nei momenti di conflitto, nelle guerre, negli scontri sociali quando gli uomini non c’erano. Ma non arrivano mai a coprire un ruolo di rilievo. Vengono obbligate a scegliere: o famiglia, o politica”, dice Mery Ruth Arancibia è la pedagoga del corso di alfabetizzazione e liderazgo (diventare leaders, capaci di autorganizzarsi) che appoggiamo e al quale abbiamo partecipato in questi anni, nel quartiere di Serena Calicantus.

Il El Día Internacional de la Mujer Indígena, istituito nel Secondo Incontro dell’Organizzazioni e Movimenti delle Americhe, a Tihuanacu nell’83 in Bolivia, ha dunque un significato profondo, che va oltre la celebrazione del passato, ma richiama le tante iniziative e resistenze al femminile che in America latina lottano per unire la propria voce a coloro che cercano un futuro diverso per la Madre terra, basato su un’economia non predatoria e discriminatoria, foriera di violenze e diseguaglianze.