Il grido dei torrenti sulle Dolomiti

il: 21 Luglio 2014

“Siamo guardiani: noi che viviamo le montagne, madri delle acque, sangue della Terra. Abbiamo una responsabilità: non possiamo venderle, sarebbe come vendere nostra Madre”. E’ Berito Cobaria, della popolazione indigena colombiana U’wa, che in visita nelle nostre montagne trentine durante una iniziativa partecipata da associazioni e cittadini, grida il suo appello; lui, che rappresenta un popolo in lotta per la propria sopravvivenza, minacciato dalla corsa al saccheggio di petrolio ed idrocarburi, ci ammonisce: “Le montagne del mondo sono in connessione, la lotta per la loro salvaguardia è una sola”. E’ il 2011, siamo in pieno referendum Acqua bene Comune. Le sue parole fanno eco a quelle di Padre Zanotelli che per tutt’Italia chiedeva di “non vendere la Madre” cioè l’acqua. In questi tre anni l’applicazione del referendum è tutta in salita, anche a Trento dove il consiglio comunale non riesce a prendere le distanze dalla costituzione di società di stampo privatistico. Ma in Trentino la tutela delle acque è inevitabilmente connessa con la tutela delle montagne e dei corsi alpini

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A fare oggi due passi a Montagnoli, sotto le maestose guglie del Brenta, qualche dubbio viene sull’idea che abbiamo di esser guardiani dei nostri monti: del bacino di innevamento artificiale in costruzione si è già parlato, avrà la capienza di 200.000 mq di acqua, servirà un carosello sciistico di 150 ettari di piste, succhierà l’acqua dal fiume Sarca, che a dargli un’occhiata non occorre essere esperti per capire che farà fatica. Vicino c’è Serodoli, dove inizia a giorni un campeggio militante che durerà fino a fine estate: in una tenda da quattro posti si daranno il cambio coloro che sono contrari all’ampliamento delle piste da sci: “Quello che sta succedendo ci lascia esterrefatti – ci racconta Nicola Cozzi, presidente degli Accompagnatori Trentini – Noi vogliamo che Serodoli resti Serodoli”.

Le nostre vallate brulicano di lavori, e oltre agli impianti sciistici, c’è l’idroelettrico, le cui strutture di piccole e medie dimensioni stanno evidentemente subendo un’implementazione. Prima che i più saltino sulla sedia gridando all’ambientalismo talebano,alla cecità di fronte allo sviluppo, all’idroelettrico come fonte energetica rinnovabile, al turismo sciistico come vocazione del territorio, proviamo a fare un ragionamento, con la finalità comune della salvaguardia delle nostre acque di montagna. 

Salendo verso Passo Manghen, su per la Val Calamento, troviamo ruspe e scavi: un cartello ci informa della realizzazione di un impianto idroelettrico ad acqua fluente per conto della Masoenergia Srl, società partecipata dalla Provincia fondata ad hoc sette anni fa con il Comune di Telve, di Scurelle, la Trentino Energia srl. “Il Rio Cadino era un fiume di rara poesia e noi l’abbiamo cancellato – ci racconta Gigi Casanova di Mountain Wilderness – era l’ultimo intatto della zona Fiemme e Fassa. Ma in Valsugana, in val di Sole, è un proliferare di centraline. Senza parlare di Molina di Fiemme, di Predazzo. Le amministrazioni comunali approfittano degli incentivi dello stato italiano. Solo nel Bellunese sono stati depositati altri 185 progetti e nell’arco alpino italiano sono più di 1200. In Austria sono 150, e gli ambientalisti sono sul piede di guerra”. Chi appoggia l’ utilizzo piccolo/medio idroelettrico attraverso società partecipate da soggetti privati e pubblici del territorio, lo ritiene una soluzione ottimale. Casanova risponde così: ” Abbiamo dimostrato, nel convegno internazionale tenutosi a Pieve di Cadore (29 marzo – Corsi e Ricorsi – Ndr), che la percentuale di energia prodotta da tutto questo idroelettrico rappresenta appena l’1,5% a livello nazionale, una cifra irrisoria. Siamo di fronte ad una speculazione”.

Quello di cui accenna Casanova è  l’incremento di strutture definite micro/medio idroelettriche, con il Decreto Bersani del 2007: elogiati da Comuni e aziende private (vedi qui il dossier della Provincia Autonoma di Trento) stanno animando in molte zone, meno in Trentino, le forti resistenze delle popolazioni: ci sono i pareri di geologi, allarmati per i possibili smottamenti, sono ritenute invasive per gli ecosistemi e per l’integrità del paesaggio. D’altronde, basta guardare la prima pagina del Corriere delle Alpi di ieri: sul Rio Rusapel nel Cadore è crollato il cantiere per la costruzione di una diga di medie dimensioni. Il camion che avanza dalla terra solo per qualche metro è un colpo d’occhio eloquente.

Di fatto, nel bellunese hanno da tempo rizzato le antenne, non solo per il triste ricordo del Vajont ma per l’ipersfruttamento senza eguali in Europa del bacino della Piave. Recentemente hanno incassato una lucida vittoria, quella per la Valle del Mis: anni di marce e ricorsi per la salvaguardia di una vallata alle porte del Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi contro la costruzione di una centrale idroelettrica, bloccata in extremis dalla Cassazione. Se i cittadini non si fossero mobilitati, il progetto sarebbe stato attuato. “Si sono artificializzati il 90% dei corsi d’acqua. Implementare il piccolo e medio idroelettrico vuol dire incidere sul restante 10%”, spiega Valter Bonan dei movimenti per l’acqua, già assessore di Feltre. “Non esiste una visione d’insieme del consumo idrico nelle montagne: fra bacini artificiali, consumo irriguo, idroelettrico e turismo sciistico, l’impatto è devastante. Per anni le concessioni hanno dato più acqua di quella che c’era, il bilancio idrico è deficitario. Bisogna ragionare sulla conversione delle produzioni agricole intensive, la razionalizzazione dei consumi. Gli enti locali strozzati dai patti di stabilità svendono il territorio e non si fa una valutazione dell’effetto cumulativo dei vari interventi. Non siamo ideologici. Bisogna ragionare su quello che la tecnologia ci offre per poter risparmiare energia, non produrne ulteriore”. Gli obiettivi del Piano Azione Nazionale (2010) nel settore elettrico sono quelli invece di “incrementare la produzione dai circa 5,0 Mtep del 2008 ai circa 9,1 Mtep nel 2020.

 

Alla base dunque, l’endemico problema economico ed energetico. Che sotto il profilo delle montagne deve necessariamente confrontarsi con altri valori: quelli indentitari, connessi ad agricoltura sostenibile, artigianato, ecoturismo; e con il cambiamento climatico: “Le Alpi fungono da sistema di preallarme. Inotre, necessitano di corrente elettrica a buon mercato per azionare le stazioni di pompaggio delle centrali idroelettriche. Buona parte del fabbisogno energetico delle regioni alpine è coperto importando fonti energetiche fossili, e benché proprio le Alpi siano predestinate a produrre energia sfruttando fonti più ecologiche come il sole o il legno, questo potenziale continua ad essere inutilizzato”, si legge sul Rapporto dello stato delle Alpi di CIPRA.

 

I presupposti per un futuro energetico sostenibile dunque, vanno creati: in montagna possiamo risparmiare con modelli edilizi ed agricoli differenti, i margini di miglioramento sono ampi.

Ma Berito, lo sciamano colombiano, quando parlava del legame che la Marmolada ha verso il suo ghiacciaio sacro, quello del Cocuy, non mentiva. Di fatto, c’è un filo blu non più tanto sottile che collega le nostre montagne con gli accadimenti, ad esempio, in Patagonia (V. la vittoria contro HidroAysen- Adige 9 luglio): è un filo fatto d’intrecci che hanno a che fare con il modello energetico imperante, la sua concezione, i suoi attori. C’è l’italiana Enel, che in Trentino, come in Veneto, come in America latina, promuove progetti con il marchio “Green Power”; ci sono politiche economiche che permettono a queste multinazionali un gioco di scatole cinesi che non hanno a che fare con il risparmio energetico.

Quanti di noi sono a conoscenza dell’Emissions Trading System, (ETS) che con i suoi 54 miliardi di euro rappresenta il più grande mercato di emissioni di carbonio al mondo? Si tratta di un meccanismo flessibile delineato nel Protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici. L’aspetto più criticato è il Clean Development Mechanism (CDM), che permettendo alle compagnie del Nord del mondo di comprare crediti da un progetto nel Sud invece di tagliare le proprie emissioni, ha provocato un incremento delle emissioni stesse. Ovvero: se io faccio una centrale idroelettrica in Colombia guadagno un certo numero di quote “verdi” (perchè l’idroelettrico è considerata una energia pulita), che permette alle multinazionali del nord di continuare ad emettere CO2 in cambio dello sviluppo di progetti di energia rinnovabile nel Sud del mondo. Poco importa che la costruzione in Colombia sfolli comunità locali, sia legata al conflitto interno del Paese e distrugga l’equilibrio idrogeologico di quei territori. Inoltre, sul mercato sono finite le risorse naturali: si parla di finanziarizzazione della Natura, e l’acqua, le fonti, i bacini montani, non ne sono esenti. Rendere fragili i nostri territori, geologicamente così come politicamente, esponendoli all’aggressività dei mercati; non vedere le connessioni che dalla nostra provincia, piccola e ricca anche da un punto di vista naturale, si diramano verso le esperienze europee ed internazionali sotto l’egida di un unico modello energetico che spinge sempre più ad una maggiore produzione; non tenere vive le nostre comunità, avvallando i valori che sono loro propri, e che non appartengono alla visione mercantilistica della Natura: tutto questo ci rende esposti alle aggressività di questo tempo, il nostro.

Qui la pagina dell”articolo uscito sul giornale L’Adige di Trento