“AIUTI? NO GRAZIE!” L'intervista di Yaku a Gustavo Esteva

il: 12 Aprile 2013

vedi la nostra video intervista a Gustavo Esteva

Aiuti, no grazie!
“Se qualcuno vuole farti del bene, scappa.” (Ivan Illich)

Giornata di dialogo tra movimenti promossa da Re:Common
Interviene Gustavo Esteva

Venerdì 12 aprile 2013 [h. 11 – 18]

FIRENZE – Convento di Santa Maria Novella
Piazza di S. Maria Novella 18

Informazioni per la partecipazione: L’incontro è pubblico, ma chiediamo di segnalare la vostra partecipazione scrivendo a Cristiana Gallinoni, cgallinoni@recommon.org oppure telefonando allo 06 92593140 (Re:Common) entro lunedì 8 aprile 2013. È previsto un servizio di interpretariato.

Per approfondire:

È il mito più di moda, quello che in assoluto non puoi contestare, se no sei subito tacciato di essere maoista, traditore della patria, se non un reietto al pari di chi sfrutta i bambini. Non c’è incontro sui temi di finanza e sviluppo in cui prima o poi ci sia qualcuno che chieda con il solito ghigno retorico: “E la Cina?”

È senza dubbio una domanda legittima da porsi, anche se spesso sollevata da alcuni per fini meno legittimi. In genere chi la pone è un occidentale che rappresenta una società privata, un’agenzia di sviluppo o una Ong. Gli uomini di affari nostrani si lamentano che il business cinese beneficia in maniera sleale di imponenti aiuti di Stato e con minori restrizioni in materia di ambiente e lavoro.

Gli ambientalisti e gli attivisti per i diritti umani sostengono che la Cina mina gli sforzi internazionali per migliorare la qualità dei progetti che la Banca mondiale e altri donatori occidentali si sono rifiutati di sostenere a causa dei loro impatti ambientali e sociali. È  retorico affermare che tutti i progetti, specialmente quelli di sviluppo, dovrebbero essere in linea con i più alti standard internazionali e chi non li rispetta, incluso il governo cinese, dovrebbe subirne le conseguenze. Ma il problema è solo delle compagnie cinesi, o anche di quelle occidentali?

Competizione sleale?

La Cina è il quinto promotore di investimenti diretti esteri al mondo, dopo Usa, Francia, Giappone e Germania. Nel 2008 il totale degli asset di proprietà cinese in Paesi stranieri era pari circa a 1.000 miliardi di dollari, principalmente in Asia e in mani di imprenditori cinesi forti nella manifattura o di imprese statali attive nelle infrastrutture e nell’industria estrattiva, inclusi petrolio e gas.

Queste grandi imprese ricevono finanziamenti pubblici sotto forma di crediti all’esportazione, garanzie finanziarie e prestiti a tassi agevolati per i paesi loro acquirenti. La China Exim Bank e la China Development Bank prestano oggi più del Gruppo della Banca mondiale.

Solo export e investimenti per robaccia? Non sembra, se si pensa che la Cina è ormai leader mondiale nella produzione di impianti eolici e solari e le imprese dell’ex Impero di Mezzo competono alla pari con il business occidentale in settori tecnologici quali telecomunicazioni, produzione elettrica e treni ad alta velocità. Di fatto le imprese cinesi vincono più appalti di quelle occidentali nei progetti finanziati da Banca mondiale e da altre banche pubbliche multilaterali perché sono più competitive, ed è riduttivo dire che è così solo perché fanno dumping sociale.

Inoltre vi è un’evidenza molto scarna sul fatto che le imprese cinesi sostenute dallo Stato applichino standard ambientali e sociali così bassi rispetto a quelle occidentali. Mentre molto spesso il loro vantaggio deriva dalla facilità nell’accesso al credito in Cina rispetto all’Occidente, specialmente adesso con la crisi economica.

I prestiti della Cina ai paesi più poveri non includono solo tassi più bassi, ma soprattutto progetti ed ospedali che sono parte degli accordi, mentre mancano in questi invece le odiose condizionalità economiche, da sempre imposte dall’Occidente alle realtà del Sud. Ma non va neanche questo esagerato, perché succede che le compagnie cinesi si ritirino anche da alcune operazioni nonostante le condizioni vantaggiose e talvolta si impegnino in progetti che altre società occidentali hanno lasciato perché meno redditizi – come nel settore petrolifero.

Prestiti senza scrupoli?

Nel 2006 l’ex Presidente della Banca europea per gli investimenti dichiarò che gli istituti di credito cinesi soffiavano alla istituzione da lui guidata progetti da finanziare offrendo condizioni meno stringenti riguardo agli standard del lavoro. Peccato che non si dica mai che le compagnie occidentali sono state tra le più attive a fare lobby sul governo di Pechino per evitare un miglioramento dei diritti dei lavoratori cinesi, come ampiamente documentato.

Ma il problema dell’annacquamento degli standard non riguarda solo la Cina. Vi sono progetti devastanti non finanziati dalla Banca mondiale che hanno ricevuto la copertura delle agenzie di credito all’esportazione occidentali, quali la Sace italiana. Si pensi alla diga di Ilisu in Turchia, in cui la Cina non si è fatta coinvolgere. Oppure si ricordi la diga delle Tre Gole nella stessa Cina, finanziata con le loro agenzie da diversi governi europei, o il mastodontico progetto petrolifero di Sakhalin in Russia, o ancora la diga di Maheshwar in India.

Le imprese occidentali che tanto si lamentano sono poi le più opportuniste, perché spesso rimangono in opere controverse finanziati dai cinesi, quali la diga di Merowe in Sudan con l’Alstom francese, o la stessa diga di Ilisu con il caso dell’Andritx austriaca, anche quando i rispettivi governi si ritirano.

Però si dirà che almeno sui diritti umani la distinzione con la Cina è netta. Discutibile: tranne la Bei e il governo tedesco, nessuna agenzia occidentale, inclusa la Banca mondiale, ha una politica esplicita sui diritti umani negli investimenti esteri. Di sicuro i cinesi non sono gli unici che fanno affari con i dittatori: si pensi all’Italia che è tra i più attivi nel finanziare l’export in Bielorussia con la Sace. Senza poi citare di Mubarak e tanti altri e le loro “amicizie finanziarie” in Europa.

Per ultimo si può obiettare anche sull’assenza stessa di standard per i finanziatori cinesi: negli ultimi anni la China Exim Bank si è dotata di linee guida ambientali e sociali che per altro si applicano a tutte le operazioni, a differenza di quelle seguite dalle agenzie di credito Ocse, limitate ad alcune. Alcuni standard saranno peggio e altri meglio, in ogni caso la loro discrezionalità nell’implementazione è la regola in Occidente e non solo in Cina.

Inoltre molte istituzioni occidentali stanno considerando una revisione al ribasso dei propri standard, inclusa la Banca mondiale. Si aggiunga che vi sono poi contesti di progetti in cui i finanziatori cinesi hanno riconosciuto alcune critiche ricevute dalle comunità locali, soprattutto in Asia. Insomma non sono tutti mostri come i nostri media dicono, ma come da noi persone oneste e “mostri” convivono nelle istituzioni.

E il settore privato?

Perché nessuno con lo stesso ghigno maligno non chiede mai negli stessi incontri “e il settore privato?”. Gli investimenti diretti esteri cinesi sono ancora una piccola parte rispetto a quelli americani (nel 2008 56 miliardi contro 248 miliardi di dollari). Anche nella “povera” Africa, gli investimenti dai paesi non-Ocse equivalgono a quelli dei privati occidentali. Se guardiamo al settore del petrolio, monitorato con particolare preoccupazione, gli investimenti cinesi ammontano a circa un decimo di quelli mondiali in Africa. In ogni caso il 55 per cento del petrolio estratto continua ad andare in Usa ed Europa, contro il 16 per cento verso la Cina.

Insomma, nessuno qui vuole dire che non ci sono problemi ambientali e sociali con gli investimenti esteri della Cina. Ma sembra che l’elefante cinese nella stanza è spesso additato perché nasconde bene un gregge di elefanti, quello delle compagnie occidentali, i cui impatti passati e presenti nel Sud del mondo superano di gran lunga quelli cinesi. Avere una visione più bilanciata aiuterebbe forse a costruire un dialogo proficuo con le autorità di Pechino per migliorare i loro standard e soprattutto per imporre tutti insieme standard vincolanti per il settore privato. Con la privatizzazione della cooperazione qui da noi, oggi è il settore privato che è il buono che porta sviluppo e quindi non gli si può chiedere di più. E guai all’eretico che pone questa domanda in qualche incontro.

http://www.recommon.org/e-tutta-colpa-della-cina-vero/