Agitu: É passato un mese dalla sua morte, e manca terribilmente
Di Caterina Amicucci e Francesca Caprini e pubblicato su Intersezionale
Attorno al laghetto che all’altezza di Brazzaniga forma il torrente Fersina – quello che scende giù per la Valle dei Mocheni, che infatti si chiama anche Fernstal, valle del Fersina – domenica 29 gennaio in tante e tanti hanno camminato ricordando Agitu ad un mese dalla sua uccisione. Era freddo, sono i giorni della merla ed è un gennaio che non molla; il cielo fermo, bianco, era l’unico possibile per questa passeggiata silenziosa ma anche coraggiosa, che la vallata che aveva accolto la pastora della Capra Felice ha voluto dedicare all’attivista etiope, la nostra amica, ammazzata la notte del 29 dicembre da un suo collaboratore.
E’ passato un mese dalla morte di Agitu, e manca terribilmente. Mancano le sue idee capaci di trasformarsi in azioni coerenti. Manca il suo muoversi nel mondo che era una costante ispirazione per noi compagne ed amiche. Dalla sua morte si è scritto e detto molto. Si sono formati comitati e cordate di solidarietà. E’ sceso in campo il sindaco di Trento, quello di Frassilongo – la frazione dove Agitu aveva casa, e dove è stata trovata senza vita – l’ambasciata Etiope; ci sono stati i funerali di Stato, la raccolta di fondi, la solidarietà di altri pastori per le sue capre, molti articoli di giornale. In tanti hanno potuto conoscere la sua storia, che meritava però un finale diverso, e di essere raccontata in un altro modo.
Agitu Ideo Gudeta era un’attivista che dopo gli studi in Italia aveva scelto di tornare in Etiopia per lottare accanto ai contadini e agli allevatori, nonostante la sua famiglia avesse trovato riparo negli Stati Uniti quando la situazione politica nel Paese si era deteriorata. Erano gli anni del governo di Meles Zenawi, considerato una solida democrazia con cui fare affari e per questo celebrato per gli indici di crescita economica – ottenuta a spese delle popolazioni locali, uccidendo e incarcerando oppositori ed attivisti.
Agitu lavorava nella regione dell’Oromia e si batteva contro il landgrabbing, l’accaparramento della terra da parte delle multinazionali straniere. Negli ultimi quindici anni l’Etiopia ha ceduto agli investitori stranieri milioni di ettari di terra con contratti di 50 anni in cambio di esigui contributi economici. Ha perseguito un’aggressiva politica di sviluppo con mega impianti idroelettrici, come la diga Gilgel Gibe III sul fiume Omo e quella del Rinascimento sul Nilo blu. L’effetto combinato delle politiche di gestione di acqua e terra hanno prodotto profondi sconvolgimenti ambientali e sociali lasciando intere popolazioni senza i mezzi di sostentamento e trasformandole in manodopera a basso costo per gli investitori stranieri.
Nel 2010 i compagni di Agitu vengono uccisi o arrestati. Lei riesce a fuggire a Nairobi, con una pistola nel cruscotto dell’auto pronta ad uccidersi se fosse stata catturata. Sapeva in quali condizioni si usciva dalle carceri etiopi.
Arrivata in Trentino, dove aveva studiato, Agitu ha dato continuità al suo impegno in difesa della terra attraverso un progetto di allevamento sostenibile: produceva formaggio biologico dal latte di una razza di capra autoctona, partecipava attivamente alle iniziative ambientaliste con associazioni e attivisti locali. Ma non le era stato regalato nulla e non aveva trovato un paradiso incantato.
Aveva subito minacce e un’aggressione da parte di un vicino di casa: “Tornatene a casa”, le diceva, con quel senso di possesso delle cose e delle persone maschlista e bigotto che appartiene a molti posti della terra, anche delle vallate trentine. Agitu con determinazione aveva denunciato – l’uomo era stato poi condannato a nove mesi di carcere – sfidando certe consuetudini immobili e feroci che tanto hanno a che vedere con la povertà d’animo, ma anche con le campagne di xenofobia e razzismo che stavano allora attraversando l’Italia e che anche il governo locale leghista – che aveva da poco vinto le elezioni in Trentino – alimentava e continua ad alimentare con parole ed azioni.
Agitu era rimasta dove voleva vivere, per portare avanti i suoi progetti. La sua capacità di costruire relazioni, di interloquire, di seminare empatia, le era valsa un’ampia rete di conoscenze, collaborazioni, amicizie ed alcuni riconoscimenti istituzionali. La incontravi spesso, sia che fosse ai mercati del biologico o nelle sue botteghe cittadine – in centro a Trento, ma aveva appena aperto anche a Bolzano – sia in manifestazioni, dibattiti, conferenze; c’era all’OltrEconomia festival, dove più volte aveva partecipato ai tavoli sui femminismi e sulle economie solidali e alternative. C’era per spiegarti il langrabbing nella sua terra, per dimostrarti che lottando ce la si può fare, che combattere per la giustizia sociale è un dovere ed una responsabilità e che si poteva fare anche con l’allegria della vita e dell’amore per il prossimo.
Agitu era una donna nera, consapevole sia dei pregiudizi e delle difficoltà che comportava nel suo lavoro di allevatrice montana in Trentino, che del privilegio di esser potuta arrivare in Italia con un volo aereo. Un’azione semplice, preclusa alla maggior parte delle persone nella sua stessa situazione.
Anche per questo Agitu offriva lavoro a giovani migranti sopravvissuti alle torture in Libia e alle stragi nel Mediterraneo. Li aiutava non solo a trovare una prospettiva, ma anche ad ottenere il permesso di soggiorno. Gli insegnava a leggere e scrivere, li aiutava a prendere la patente. E lo faceva spontaneamente e senza alcun tipo di supporto, come tutti quegli attivisti che quotidianamente in mare e sul territorio organizzano azioni di salvataggio e solidarietà con i migranti e si trasformano a loro volta in bersaglio della becera propaganda di forze politiche e di cittadini abbrutiti e incattiviti.
Questa è stata la vita di Agitu, non una favola finita male da prima pagina di una rivista patinata. Le celebrazioni della comunità locale campione di accoglienza, così come i funerali di stato in Etiopia, sono un’operazione pacificatoria difficile da digerire per chi conosce la sua storia. E’ sufficiente scorrere il suo profilo Facebook per capire che opinione aveva Agitu dell’attuale governo Etiope presieduto da Abiy Ahmed ed insignito di un frettoloso premio Nobel per la Pace per gli accordi di pace con l’Eritrea. Il 6 novembre scorso Agitu scriveva, condannando i venti di guerra che soffiano da mesi nella regione del Tigrai: “Attualmente tutti gli oppositori politici sono in prigione, l’unico mezzo d’informazione è solo quello governativo, i giornalisti non governativi sono perseguitati dallo stesso governo. Le condizioni dei prigionieri politici non rispettano i diritti umani”.
Agitu è morta perché era una donna che non aveva paura, restituirle la sua identità politica sulla quale costruiva con coerenza e visione la sua vita e le sue azioni, è il minimo che possiamo fare. Oltre a piangerne la scomparsa.