LIPU e Yaku

il: 15 Febbraio 2021

Care e cari insegnanti, educatrici ed educatori, questo mese vogliamo affrontare con voi una riflessione su una problematica che nel mondo occidentale viene poco trattata, ma che merita una grande attenzione da parte di tutti e la scuola, anche su questo, può influenzare molto la presa di coscienza della società attraverso le giovani generazioni: il landgrabbing. Il termine “land grabbing” è stato nominato, per qualche giorno, sulle prime pagine dei quotidiani purtroppo per una tragedia avvenuta alla fine dello scorso dicembre, ossia il terribile omicidio di Agitu Ideo Gudeta, un’imprenditrice di origine etiope scappata dall’Etiopia proprio a causa della sua lotta contro il land grabbing e il water grabbing. Agitu aveva trovato nel Trentino la sua nuova casa e aveva aperto un’impresa agricola esempio di rispetto e amore per la natura e gli animali. Ne parliamo con Francesca Caprini, giornalista e attivista di Yaku, un’organizzazione che si batte tenacemente contro questa problematica, nonché amica di Agitu. 

Buona Lettura

educazione@lipu.it

L’INTERVISTA

Francesca, tu conoscevi bene Agitu, avete partecipato insieme a molti eventi di sensibilizzazione, che cosa ti ha colpito di più in lei?

Agitu Ideo Gudeta era innanzitutto un’amica, oltre che una compagna di lotte e di iniziative comuni. L’ho conosciuta anni fa in occasione di un’edizione dell’OltrEconomia Festival di Trento, un evento che ogni anno Yaku – assieme al Centro Sociale Bruno, ai Richiedenti Terra ed altre realtà – organizza in contemporanea al festival dell’Economia di Trento. Ogni edizione ha uno spazio dedicato al femminismo, ed è durante un tavolo di discussione sulla dimensione femminile dell’economia che Agitu è intervenuta, raccontando della sua azienda – la Capra Felice –, ma anche della sua storia di attivismo nella sua terra d’origine, l’Etiopia.  Attivista etiope, trapiantata in Trentino, Agitu è stata uccisa quasi due mesi fa – la notte del 29 dicembre – da un suo collaboratore. In Etiopia lavorava nella regione dell’Oromia e si batteva contro il landgrabbing. Negli ultimi quindici anni infatti l’Etiopia ha ceduto agli investitori stranieri milioni di ettari di terra con contratti di 50 anni in cambio di esigui contributi economici. Ha perseguito una politica aggressiva di sviluppo con mega impianti idroelettrici, come la diga Gilgel Gibe III sul fiume Omo e quella del Rinascimento sul Nilo blu. L’effetto combinato delle politiche di gestione di acqua e terra hanno prodotto profondi sconvolgimenti ambientali e sociali lasciando intere popolazioni senza i mezzi di sostentamento e trasformandole in manodopera a basso costo per gli investitori stranieri. Nel 2010 i compagni di Agitu vennero uccisi o arrestati. Lei era riuscita a fuggire a Nairobi e poi in Trentino, dove aveva studiato. In Valle dei Mocheni Agitu ha dato continuità al suo impegno in difesa della terra attraverso un progetto di allevamento sostenibile: produceva formaggio biologico dal latte di una razza di capra autoctona, partecipava attivamente alle iniziative ambientaliste con associazioni e attivisti locali. Era diventata famosa, quasi un’icona di coraggio e solidarietà. Le volevamo tutti molto bene, e con lei abbiamo condiviso pezzi di militanza e di vita.

Hai accennato al problema del land grabbing in Etiopia, puoi spiegarci con un altro esempio che cos’è esattamente il land grabbing?

Si parla di land grabbing – in italiano accaparramento di terra –  quando una porzione di terra considerata “inutilizzata” è venduta a terzi, di altri paesi, senza il consenso delle comunità che ci abitano o che la usano per produrre cibo per il proprio sostentamento. Si tratta di forme di neocolonialismo messe in atto da multinazionali che si contendono le ricchezze di territori come Africa o America Latina, una vera e propria corsa all’accaparramento di terre, acqua, petrolio, gas, minerali preziosi, legname a discapito delle popolazioni che abitano quei territori, la cui voce rimane troppo spesso inascoltata. Oltre alle risorse grezze che possono essere estratte da questi territori, il landgrabbing viene impiegato anche per un’altra declinazione della finanziarizzazione della Natura, ovvero i certificati verdi, una forma di incentivazione della produzione di energia elettrica “pulita”, cioè prodotta da fonti rinnovabili. Questo può succedere grazie ai meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto, che consentono alle imprese di continuare ad inquinare, assegnando veri e propri permessi di emissione in cambio della costruzione di impianti di energie rinnovabili.  Per capire bene il contesto socio-economico in cui si inserisce, possiamo fare riferimento a ciò che accade in Colombia, dove noi di Yaku lavoriamo da parecchi anni al fianco delle comunità indigene, contadine ed afro-discendenti, nei territori di conflitto. La Colombia ha vissuto oltre cinque decadi di conflitto armato. I molteplici interessi economico-politici si sono intrecciati con le lotte della guerriglia per la difesa della terra e il narcotraffico, e hanno fomentato la convivenza di gruppi paramilitari con le forze armate del Governo. Un conflitto che è degenerato in una sistematica violazione dei diritti umani nella popolazione civile. Nonostante nel 2016 siano stati firmati degli Accordi di Pace tra governo colombiano e FARC – Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, il principale gruppo guerrigliero attivo nel Paese – non è diminuita la violenza, in un panorama complesso di recrudescenza di omicidi mirati e violazione dei diritti umani. Una guerra interna che è costata almeno 250.000 morti e fra i 7 ed i 10 milioni di sfollati interni, e che dalla firma degli accordi di pace, ha fatto registrare l’uccisione di quasi mille fra attiviste/i, leader comunitari ed ex guerrigliere/i.

E il water grabbing?

Il watergrabbing significa prendere possesso delle risorse idriche vietando il diritto all’acqua a comunità locali o ad intere nazioni. È dunque l’ultima frontiera della speculazione messa in atto a livello globale attorno ai beni comuni essenziali per la vita, ed è strettamente collegato al landgrabbing. A quasi 20 anni della Guerra dell’Acqua di Cochabamba, in Bolivia l’acqua è stata per la prima volta nella storia quotata in borsa: il 7 dicembre scorso infatti, il Gruppo CME ha lanciato il primo contratto sull’acqua con l’obiettivo di consentire di pianificare in anticipo la modifica dei costi dell’acqua. Di fronte ad una crisi idrica senza precedenti e ad una distribuzione tutt’altro che equa delle fonti d’acqua – meno di un miliardo di persone consumano l’86% dell’acqua esistente – non possiamo che dedurre che il combinato di scarsità e privatizzazioni daranno frutto ad ulteriori conflitti e migrazioni di intere popolazioni, costrette ad abbandonare i propri territori.

Anche società italiane sono responsabili del land grabbing?

Sì. Un esempio forte di land e watergrabbing è rappresentato dalla vicenda che ha visto protagonista una multinazionale italiana, l’Enel, che pur privatizzata per il 70%, ha ancora un 30% in mano al nostro governo. La mega diga El Quimbo, sul fiume Magdalena, nel Sud Ovest della Colombia, ha visto infatti il protagonismo negativo dell’italiana Enel che attraverso la controllata Emgesa – e l’impresa costruttrice italiana Impregilo, oggetto di indagini giudiziarie per irregolarità nell’affidamento dei lavori da parte di Emgesa – si era accaparrata la concessione di costruzione.  La grande opera – una diga alta 151 metri e larga 632 metri e un tunnel di diversione lungo 489 metri –  doveva inondare 8250 ettari di terra e sfollare conseguentemente circa 10.000 persone residenti in loco, per lo più contadini e pescatori. Solo grazie alla forza delle popolazioni locali – contadini e pescatori, ma anche studenti universitari, professori, ingegneri, e molte comunità indigene Nasa, organizzatisi in una piattaforma chiamata Asoquimbo – e alla costruzione della  campagna internazionale Stop Enel – (https://stopenel.noblogs.org/) – il progetto è stato fermato e l’impresa obbligata alla restituzione di 11.000 ettari di terreno e al ripopolamento dei pesci nel fiume. Ma sappiamo che le operazioni di greenwashing, come viene definita la politica di promozione delle multinazionali, millantando aspetti di rispetto ambientale per nasconderne altri, ha un potere subdolo e ramificato: la multinazionale Eni, ad esempio, anch’essa in parte ancora in mano allo Stato italiano, e rea di disastro ambientale in Nigeria, si sta occupando di una serie di conferenze ambientali in musei di scienza e in molte scuole. Una vera contraddizione in termini, oltre che una pericolosa manipolazione dei fatti nei confronti delle giovani generazioni.

Perché parlare a scuola di land grabbing? 

Le ragioni sono molte, in primis perché sono proprio gli studenti e le studentesse a denunciare la necessità di un cambiamento radicale di fronte alle politiche ambientali e alla mancanza di un’assunzione seria, da parte di governi e gruppi di potere, delle drammatiche conseguenze in atto nel mondo a causa del cambiamento climatico legato allo sfruttamento delle risorse. Ce lo hanno ampiamente dimostrato i FFF – Fridays For Future, gli Extinction rebellion (XR) e le manifestazioni studentesche che in ogni parte del mondo richiedono urgentemente attenzione e concretezza nei cambiamenti. C’è un aspetto su cui noi di Yaku stiamo lavorando molto, e che ci fa piacere portare nelle scuole anche sotto forma di laboratori partecipativi: la questione di genere che è legata all’accaparramento delle risorse, parlo del legame fra Donne ed estrattivismo. Ad esempio, nel contesto dove noi lavoriamo, in Colombia – ma di fatto in ogni parte del mondo – le donne giocano un ruolo da protagoniste nell’opporsi a fenomeni come land e watergrabbing. L’estrattivismo porta infatti con sé depauperamento sociale e regressione delle forme democratiche, fino ad arrivare alla generazione di veri e propri conflitti, e alla militarizzazione dei territori. E quando c’è guerra, le donne ed i loro corpi diventano troppo spesso parte di un bottino, dentro meccanismi che si intersecano con substrati di maschilismo e patriarcato. I movimenti femministi e neofemministi  in ogni parte del mondo si sono conformati per costruire una risposta di pace e di alternativa. Agitu Ideo è stata vittima di femminicidio, perché era forte, indipendente, donna, e non necessariamente in quest’ordine. Le defensoras di diritti umani ed ambientali come Agitu diventano simbolo di cambiamento e riscatto e spesso sono il volto e il nome di grandi battaglie ambientali e sociali: pensiamo all’attivista indigena Bertha Caceres in Honduras, uccisa dopo che la battaglia del suo popolo aveva bloccato la costruzione di una mega diga, o di Marielle Franco, anche lei paladina per i diritti della comunità LGBTI in Brasile, ammazzata in circostanze non del tutto chiarite. Queste donne non vanno dimenticate, soprattutto nella scuola.

Ci sono delle azioni che gli studenti, le famiglie, i singoli cittadini possono fare?

Io credo che sia il momento di scendere in campo, ognuno come può. Ma non ci si può più nascondere dietro l’ignoranza o dietro il “io non sapevo”. Le migrazioni forzate sono sotto gli occhi di tutti, così come le conseguenze nefaste dei cambiamenti climatici. Bisogna prima di tutto informarsi, in maniera variegata, avere più fonti e soprattutto, informazione indipendente e certificata (no blog e fake news, insomma). Poi partecipare: nulla come fare parte di un gruppo aiuta a stare meglio e non sentire la classica sindrome del Davide contro Golia. Fare parte di qualche cosa combatte il senso di frustrazione che spesso blocca, perché “tanto cosa serve” è la risposta più facile. Anche in tempo di pandemia si può: andare nelle strade, manifestare pacificamente e con allegria; riappropriarsi della salvaguardia dei propri territori: sono azioni che ricostruiscono comunità, il senso del “noi”. E dove una scuola come bene comune non verrà più messa in fondo alla lista delle cose importanti.

Chi è Francesca Caprini

Francesca Caprini è giornalista freelance e fondatrice di Yaku Onlus, per cui si occupa dell’organizzazione di eventi e dell’ufficio stampa. Coautrice di alcuni volumi, fra cui “La Rivoluzione dell’acqua, la Bolivia che ha cambiato la storia”  e “La visione andina dell’acqua”, per Nuova Delphi Ed.

YAKU E LA SCUOLA DELL’ACQUA

Yaku significa acqua in quechua, lingua indigena dei popoli delle Ande. Siamo un’associazione indipendente che si batte per la difesa dell’acqua e contro la privatizzazione dei beni comuni. Per questo, cerchiamo di contribuire alla costruzione di meccanismi di protezione per difensore e difensori di diritti umani ed ambientali minacciati.  Svolgiamo attività di cooperazione internazionale in America latina insieme a comunità indigene, contadine, afro-discendenti, e in connessione con organizzazioni sociali, in particolare in Colombia e Bolivia. Costruiamo percorsi di sensibilizzazione e formazione politica nelle scuole e per il terzo settore. Ad esempio, il progetto “Piccoli Guardiani dell’acqua e della terra: il Quaderno Volante” che ha come finalità quella di costruire percorsi di dialogo e reciprocità fra scuole italiane e colombiane, attorno alle tematiche della difesa delle risorse naturali ed i beni comuni. 

Notizie ed approfondimenti: YAKU.EU