Che in Colombia ci fossero i forni crematoi poche persone se lo aspettano. E’ Jesus Abad Colorado a raccontarlo con le sue foto, quasi 500 bianconeri distribuiti nelle quattro grandi sale del Chiostro de San Augustin, all’Universidad Nacional di Bogotà che sono l’opera della sua vita di fotogiornalista: “EL TESTIGO. Memorias del conflicto armado colombiano” raccoglie parte della produzione fotografica di Abad in una mostra lacerante e necessaria, che racconta volutamente senza sconti, la storia violenta della Colombia.
Chocò, Turbo, San Josè de Apartadò, Cacarica, Medellin; foto dei paramiltari in Catatumbo negli anni Novanta, delle FARC- le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – mentre depongono le armi nel 2016, di ragazzini di sedici anni già soldati dell’ELN – Esercito di liberazione Nazionale, l’altro esercito guerrigliero colombiano. Dei funerali, delle morti. Le madri e i padri, le sorelle, i fratelli, i figli, con le immagini dei propri desparaecidos fra le mani, chiedendo giustizia, una data, un luogo.
E anche di forni crematoi, appunto : quelli trovati e fotografati dal reporter colombiano – vincitore del Premio Excelencia 2019 – nella selva, dove i paracos -i paramilitari – bruciavano i resti di coloro che avevano torturato ed assassinato.
A Bogotà piove quando andiamo a visitare la mostra, che doveva durare qualche mese ed è già due anni che campeggia nel chiostro coloniale fra il Palacio de Nariño e a pochi passi dal Capitolio Nacional, ed è stata prolungata ancora. La foschia densa del cielo basso, nella capitale colombiana a quasi tremila metri sul livello del mare, si mescola con le sfumature di grigio e i neri potenti delle fotografie appese. E’ come un grido che cammina per i corridoi, ti entra sotto la pelle e ti cambia – ven, siembra tu raices a mi lado/ yo soy el arbol plantado junto al rio/que nadie moverà (vieni, semina le tue radici accanto a me, io sono l’albero piantato lungo il fiume che nessuno muoverà) – le poesie scritte sui muri allargano lo spazio delle immagini e fanno respirare per un momento. Ci sono anche le parole di Jesus Abbas, che non sono didascalie, ma ricordi: “Quando questa donna, piangendo in un funerale, mi ha chiesto di non fotografarla, ho abbassato la macchina. Ma poi l’ho fotografata spiegandole: lo devo fare. Pensa le immagini del Vietnam, o dei campi di concentramento nazisti. Se non ci fossero state, questi fatti verrebbero negati da qualcuno”, si legge sotto la foto del volto lucido di dolore di una donna afro del Chocò.
E la sua narrazione per immagini sfiora anche la sua personale biografia, con le fotografie dei suoi nonni – ammazzati negli anni Sessanta – e dei genitori, che dovettero scappare a Medellin e poi nel Magdalena Medio, inseguiti come molti, dalla cieca violenza del conflitto armato più longevo dell’America latina.
E’ la verità, quella che scorre sulle pareti del chiostro, resa vorace e indifendibile dall’assenza del colore – una forma di rispetto verso il dolore. Perchè le cifre impressionanti della tragedia umana colombiana – quasi 300.000 vittime nel conflitto, 8 milioni di sfollati, 89.000 desaparecidos, 15.738 donne e bambine stuprate ( ma sono numeri al ribasso) – vengono ancora oggi occultate e manipolate da una retorica indegna che nega ancora il genocidio in corso contro lideres sociali, attivisti, indigeni, donne, che si stanno opponendo alla guerra interna, che sta vivendo una nuova tappa di violenza e caos dalla firma dell’accordo di pace, nel 2016.
Abad è diretto con le immagini, perchè è sempre stato sul posto, a volte da solo, per raccontare tragedie infinite che magari guadagnavano un trafiletto sulla stampa nazionale: quasi 80 morti per l’esplosione dell’oleodotto del Cano Lemon nel 1998 per mano dell’Eln sono una delle tante tragedie silenziate. Così come lo stupro selettivo delle donne di etnia Wayuu, perchè referenti spirituali e politici del proprio popolo. Fotografa crateri nei campi nel Rio Sucio quando il governo negava di aver bombardato; ed era a Turbo nel 1997 quando lo sfollamento massivo di migliaia di persone per mano dei paramilitari e dell’esercito insieme, dava origine alla cosiddetta Operacion Genesis, di cui si è avuta giustizia a vent’anni di distanza evidenziando per la prima volta la connivenza fra Stato e paramilitarismo.
Accanto alle immagini, anche le denunce: i sostenitori dell’ex presidente ed attuale senatore Alvaro Uribe appaiono in vari comizi insieme a capi paramilitari, delineando chiaramente il filo teso fra multinazionali, capi politici e mercenari.
E’artista della memoria, Abad, perchè cammina rispettoso insieme a lei. Per questo riesce a fotografare Aniceto che piange disperato sulla tomba di sua moglie, che lui aveva dovuto vedere morire di dissanguamento per un colpo di fucile, mentre esercito e guerriglia gli impedivano per ore di portarla in ospedale. Sembra un racconto di Buzzati e invece è ciò che il fotografo ha saputo rendere: uno scatto per un tempo infinito, la storia della morte di Ubertina, che Jesus Abad accompagna all’interro, insieme al marito.
L’intimità del dolore che El Testigo ci consegna, ci impone – nel momento in cui la riceviamo – di essere parte del processo di giustizia della Colombia, così come in ogni altro luogo che affondi le proprie colpe nel silenzio e nell’indifferenza.
Con la propria penna, la propria persona nei territori. Con la mente aperta e mai spenta. Ci chiede di prendere posizione e guardare negli occhi l’ingiustizia, e combatterla.
“La verdad que se le quiere contar al país es siempre la de los vencedores, no la de los perdedores, población vulnerada en toda su dignidad humana. La verdad desde la que yo trato de acercarme es la de las víctimas, esas personas que han estado perdiendo constantemente y que están cansadas, pero que en muchos casos buscan regresar a su tierra para reconstruir sus vidas y vuelven a sembrar en lugares donde muchas veces recogieron sus muertos”.
Jesús Abad Colorado.
Qui le informazioni per la mostra