Pubblicato il 23 Agosto 2023. Di Francesco Martone*.
Lo scorso fine settimana l’Ecuador è andato alle urne per eleggere il prossimo presidente ed il parlamento dopo la decisione presa dal presidente uscente Guillermo Lasso, di sciogliere anticipatamente il Congresso applicando il meccanismo della “muerte cruzada” previsto dalla Costituzione.
Motivo principale di tale decisione la determinazione del Congresso di procedere con la procedura di “impeachment” nei suoi confronti per alcuni casi di corruzione che lo vedono più o meno direttamente coinvolto. In realtà Lasso fin dall’inizio del suo mandato si è dimostrato incapace di gestire un paese in preda alle conseguenze sociali ed economiche del COVID, oltre che al dilagare – negli ultimi anni – della criminalità organizzata delle gang collegate ai cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco. Cartelli che controllano importanti aree lungo la costa del paese dal quale partono i carichi di coca destinati ai mercati asiatici ed europei. Lasso si è trovato a dover affrontare una vera guerra interna, tra le bande per il controllo dei mercati e del territorio, che si è sviluppata inizialmente all’interno delle carceri, per poi espandersi in varie città e regioni, dove da allora vige lo stato di emergenza.
Banchiere di Guayaquil, e vicino all’Opus Dei, Lasso si è distinto per politiche economiche e finanziarie volte a favorire le sue élite di riferimento, non ha esitato ad usare la mano dura della repressione violenta contro i movimenti indigeni e sociali che avevano marciato su Quito nel giugno dello scorso anno per chiedere politiche sociali ed il rispetto dei loro diritti. Una rivendicazione che era tutta racchiusa in un pacchetto di proposte messe sul tavolo della trattativa con il governo, condizione per interrompere le mobilitazioni di piazza. Trattativa che si è poi arenata per la mancanza di volontà politica del governo. Va sottolineato come il movimento indigeno in Ecuador (CONAIE – Confederazione delle Organizzazioni delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador), ha svolto da sempre un ruolo determinante come attore sociale e politico, molto di più che in altri paesi latinoamericani.
La CONAIE è sempre stata il catalizzatore delle mobilitazioni sociali, ben oltre le nazionalità indigene che rappresenta, e attraverso il suo braccio politico Pachakutik ha espresso candidati alla presidenza, partecipando in passato al governo che seguì alla cacciata del presidente Mahuad, agli inizi del 2000, quando il paese si mobilitò contro la scelta dello stesso di dollarizzare l’economia. Nelle ultime elezioni amministrative dello scorso anno Pachakutik ottenne importanti risultati, secondo solo allo schieramento politico di UNES, che faceva riferimento all’ex-presidente Rafael Correa, artefice della “Revolución ciudadana” che governò il paese per due mandati, per poi trovarsi costretto ad una sorta di esilio in Belgio per sfuggire a varie condanne per presunti casi di corruzione che vedevano implicati lui ed il suo entourage. Tra questi l’allora vicepresidente Jorge Glas, condannato poi al carcere per un caso di corruzione collegato alle attività dell’impresa brasiliana Odebrecht. Un caso che, proprio pochi giorni prima delle elezioni, è stato riaperto da una importante sentenza del Tribunale Supremo Federale del Brasile che ha messo in dubbio le prove evidenziali addotte contro Odebrecht.
Con un risultato parzialmente a sorpresa ieri nella prima tornata elettorale, la candidata del partito “progressista” della Revolución ciudadana, la parlamentare uscente (correista) Luisa Gonzales, ha ottenuto poco più del 30% dei voti, seguita da Daniel Noboa, anche lui parlamentare e giovane figlio d’arte dell’evergreen della politica di Guayaquil, “Alvarito” Noboa, monopolista del settore bananiero, espressione di parte della destra delle elite economiche della costa ed eterno candidato alla presidenza del paese. Daniel Noboa, che si definisce di centro-centrosinistra ed è sostenuto da una coalizione che comprende MOVER, partito creato all’indomani della fuoriuscita dell’allora presidente Lenin Moreno dai ranghi del correismo, ha conteso il secondo posto con altri due candidati. Uno era l’outsider Jan Topic, imprenditore ed ex-legionario, una sorta di versione ecuadoriana del presidente del Salvador Najib Bukele, distintosi per i suoi metodi determinati e spregiudicati, irrispettosi dei diritti umani, con i quali ha perseguito la criminalità organizzata nel paese. Altro candidato il giornalista Christian Zurita, che ha preso in extremis il posto del candidato Ferdinando Villavicencio, giornalista e parlamentare da sempre impegnato nella lotta alla corruzione, assassinato la scorsa settimana in occasione di un evento elettorale a Quito.
Un risultato sorprendente quello di Noboa. Probabilmente, buona parte di quel 50% di indecisi prima del dibattito televisivo presidenziale ha deciso per il candidato 35enne, che si è presentato all’appuntamento con tono e linguaggio più convincente degli altri candidati, non caratterizzato dalla classica polarizzazione tra correismo ed anti-correismo, che ha contraddistinto il dibattito politico degli ultimi anni. Inoltre, molti analisti concordano sul fatto che essendo la sua campagna elettorale partita in sordina, non si è trovato al centro di polemiche e attacchi da parte dei suoi avversarsi, potendo così esprimere la sua proposta politica in maniera meno conflittuale. Se da una parte il leitmotiv della campagna elettorale di Luisa Gonzales era tutto rivolto all’indietro, rievocando i risultati della Revolución ciudadana di Correa, dall’altra Noboa, formato nei settori accademici degli Stati Uniti, ha insistito sui temi centrali della sicurezza e degli investimenti sociali, financo proponendo una “auditoria” del debito del paese. Uno degli storici cavalli di battaglia dei movimenti altermondialisti nel passato.
Per quanto riguarda gli altri contendenti, scompare definitivamente dalla scena politica Javier Hervas, imprenditore dell’agribusiness e candidato del partito socialdemocratico Izquierda Democratica, che nella scorsa tornata elettorale ottenne un sorprendente 11%. Sfumano anche le velleità di Otto Sonnenholzner, già vicepresidente con Lenin Moreno (presidente che precedette l’uscente Lasso e che inizialmente era candidato del correismo per poi spostarsi progressivamente a destra).
Interessante notare come la stragrande maggioranza dei candidati alla presidenza del paese provengano dal settore imprenditoriale, sostenuti spesso e volentieri da cartelli politici creati alla bisogna e senza un vero radicamento territoriale. Deludente il risultato del candidato indigeno Yaku Perez, che nell’ultima tornata elettorale, stava per aggiudicarsi la possibilità di andare al ballottaggio con il candidato presidenziale Andres Arauz, ora in binomio con Luisa Gonzales. Al tempo Perez aveva ottenuto il sostegno, seppur non convinto, della CONAIE che avrebbe voluto invece proporre il suo presidente Leonidas Iza. Stavolta si è presentato con una formazione di piccoli partiti di sinistra senza il sostegno del più importante movimento indigeno (e sociale) del paese, ma solo con quello concesso fuori tempo massimo dalla sua espressione politica Pachakutik, ormai da tempo attraversata da profondi conflitti interni e dal quale Perez si era allontanato.
Altro elemento da tenere in considerazione è che il correismo dopo una importante affermazione nelle scorse amministrative è di fatto il partito di maggioranza nel paese e nel nuovo Congresso. Ciononostante, è quasi scontato che al ballottaggio previsto per il prossimo 15 ottobre (visto che Luisa Gonzales non ha raggiunto né il 50% dei voti né il 40% con distacco di 10 punti dal secondo, come previsto dalla legge elettorale), tutti i voti dei candidati di destra ed “anticorreisti” confluiranno su Noboa, che pertanto avrà grandi probabilità di insediarsi nel palazzo presidenziale di Carondelet. Certamente una sorta di vittoria di Pirro, visto che in tal caso il conto da pagare alle destre sarà assai salato, e visto che di fatto il paese sarà quasi immediatamente in campagna elettorale per le prossime presidenziali del 2025.
Questa possibile vittoria delle destre nel paese appare in controtendenza rispetto al risultato contemporaneo del ballottaggio per le presidenziali in Guatemala, che hanno visto la storica affermazione del candidato progressista, ma appare in sintonia con la clamorosa affermazione delle destre nelle elezioni primarie in Argentina, e con la crisi attraversata in Cile dal governo progressista di Boric. Altro discorso per la situazione in Bolivia, dove in vista delle prossime elezioni presidenziali il movimento del MAS appare spaccato, tra il sostegno all’attuale presidente Arce e la candidatura del suo fondatore storico Evo Morales. Un’esperienza, quella boliviana, che è stata un riferimento importante per i movimenti indigeni in Ecuador ed in tutto il continente.
Accanto al voto per le presidenziali e per il Congresso si sono svolti due importanti referendum, quello di rilevanza nazionale, per non estrarre petrolio nella zona amazzonica dell’ITT Yasuni, e quello locale e circoscritto al territorio metropolitano di Quito, contro l’espansione delle attività minerarie nel Chocò Andino. In ambedue i casi ha vinto il SI. La concomitanza di queste consultazioni con le elezioni politiche, va certamente contestualizzata sullo sfondo della crescente violenza indotta dai narcos, che con l’omicidio di Villavicencio e con altri attentati e sparatorie alquanto sospette dove hanno visto coinvolti più o meno direttamente altri candidati tra cui Otto Sonnenholzner, sono entrati prepotentemente nella scena elettorale, facendo pesare la loro influenza.
Tuttavia dimostra che c’è un altro paese che è andato al voto. Quei milioni di ecuadoriani ed ecuadoriane che hanno deciso sul futuro del modello produttivo, e per la fuoriuscita dalla monocultura estrattivista. Non è un elemento di poco conto, che ha una rilevanza globale vista la dipendenza storica dell’economia del paese dall’estrazione ed esportazione di combustibili fossili e di minerali. Ciò rende giustizia, almeno per quanto riguarda ITT Yasuni, della perseveranza con la quale i movimenti sociali ed ecologisti del paese hanno operato fin da quando la proposta venne lanciata dieci anni fa, nel periodo di presidenza di Rafael Correa. Che se inizialmente sembrava schierato a favore, in un secondo tempo, con una rapida retromarcia, decise di offrire quel territorio ricco di petrolio a multinazionali del settore. E in parallelo delegittimare ed impedire lo svolgimento del referendum, per il quale si erano adoperati i movimenti ecologisti e sociali raccogliendo oltre 750mila firme in tutto il paese. Firme poi invalidate arbitrariamente dal presidente, che lanciò una dura campagna di criminalizzazione dei movimenti.
Dopo anni di contese legali la Corte Costituzione decise pochi mesi fa di convalidare le firme e quindi di convocare il referendum nazionale. Il risultato della consultazione su ITT Yasuni mostra un paese trasversale, (alcuni dei candidati di “destra” si sono convenientemente espressi per il Si al referendum su Yasuni), che di fatto si trasforma nel suo ruolo. Un paese fatto da elettori che hanno votato per il Si al Yasuni ed al Chocò Andino, per i diritti della natura riconosciuti dalla costituzione, per le loro specie uniche minacciate di estinzione, per le comunità indigene e contadine che se ne prendono cura. Quei milioni di ecuadoriani ed ecuadoriane diventano “guardiani” e “custodi”, votando per conto di quegli ecosistemi…ha votato el “oso de anteojos”, hanno votato le foreste, gli uccelli, le scimmie, le orchidee, gli alberi, i microorganismi, l’aria che respirano e l’acqua che scorre incontaminata. Hanno votato attraverso i loro custodi e guardiani, che chiedono la loro protezione. Una sorta di esercizio di legittima difesa, di alleanza interspecie. Un blocco “ecosociale” che farà senz’altro valere il suo peso nei confronti di qualsiasi governo futuro del paese.
Le elezioni ci consegnano quindi due paesi, quello della violenza criminale e quello della violenza estrattivista a confronto. La vittoria del Si, allo Yasuni ed al Chocò Andino, apre la porta ad un altro Ecuador possibile. Ipotesi che appare così remota oggi nel contesto di violenza dilagante, ma che diventerà imprescindibile per il futuro, non solo del paese ma di tutto il pianeta.
*Membro del Comitato Nazionale di Un Ponte Per, portavoce della rete “In Difesa Di – per i diritti umani e chi li difende” composta da 30 associazioni, ONG; e organizzazioni della società civile italiana, allo scopo di sostenere e proteggere i difensori/e dei diritti umani. Membro del Tribunale Permanente dei Popoli, e socio fondatore di Greenpeace Italia è consulente della fondazione Tebtebba per temi che riguardano i diritti umani e dei popoli indigeni, ed i finanziamenti sui cambiamenti climatici. È stato per due legislature Senatore della Repubblica, e segretario della Commissione Straordinaria per i Diritti Umani del Senato. Articolo inviato a Other News dall’autore.