Huáscar Salazar Lohman
Ojalá
Il 26 Giugno, Piazza Murillo è stata testimone di un’enigmatica azione militare che ha lasciato la Bolivia immersa nell’incertezza. Nel corso di due ore e mezza, l’intero paese trattenne il respiro, cercando di decifrare ciò che stava accadendo nel cuore politico di La Paz.
Un volta ancora, il ritmo della politica boliviana viene segnato dall’ombra dell’intervento militare, in uno scenario tanto confuso che angosciante, al limite del surreale. Siamo rimasti colpiti da un’alluvione di notizie frammentarie, contraddittorie e sconcertanti. Lo schema è stato lo stesso nei giorni successivi, con l’apparizione quotidiana di dati isolati che cercano di rinforzare una delle narrative in lotta, senza fare luce in alcun modo sulla situazione generale.
Oggi, la Bolivia si trova divisa e distratta da una nuova battaglia narrativa. Dalla disputa “golpe-fraude” siamo passati all’alternativa “golpe-autogolpe”. Tuttavia, questa lotta per imporre una narrazione non solo nasconde ma esaspera una crisi economica dilagante che colpisce soprattutto i settori popolari.
Per svelare la complessità di questi eventi, dobbiamo andare oltre queste narrazioni e affrontare il tema del ruolo delle forze armate. Queste si sono trasformate nella pietra angolare di un sistema di governo che opera in uno scenario politico profondamente degradato a livello statale, e che ha come conseguenza un tessuto sociale indebolito.
Cos’è successo il 26 di Giugno?
Dopo mezzogiorno di questo 26 Giugno, il generale Juan José Zúñiga, conosciuto per la sua vicinanza al presidente Luis Arce e recentemente destituito dal ruolo di comandante nazionale dell’esercito per aver minacciato pubblicamente Evo Morales, è stato il protagonista dell’insolito episodio.
Accompagnato da un gruppo di ufficiali leali, Zúñiga ha cercato di fare la morale al presidente boliviano per i presunti danni al Paese, chiedendo un rimpasto di governo e la liberazione dei prigionieri considerati “politici”, tra cui l’ex presidente Jeanine Añez e il reazionario di Santa Cruz Luis Fernando Camacho.
La tensione ha raggiunto il suo punto più alto quando Zúñiga e i suoi uomini sono entrati in Piazza Murillo di La Paz, puntando un carro armato al cancello del palazzo presidenziale. In un momento di grande tensione, il Presidente Arce hail generale, chiedendo la sua subordinazione.
Di fronte al rifiuto di Zúñiga, Arce ha risposto nominando un nuovo alto comando militare, confermando il licenziamento di Zúñiga e dei comandanti dell’aviazione e della marina. In pochi minuti la situazione si è ribaltata: i carri armati si sono ritirati, mentre il presidente ha celebrato la sua vittoria con un discorso entusiasta.
L’esito fu rapido, ma lasciò una scia di dubbi. Zúñiga fu arrestato, però non senza prima lanciare un’accusa esplosiva: sostenne che Arce stesso avesse orchestrato l’incidente per migliorare la sua immagine pubblica. Questa affermazione fu rapidamente accolta dai seguaci di Evo Morales e altri oppositori, che non tardarono a parlare di un “autogolpe”.
Tuttavia, mentre le immagini del carro armato di fronte al palazzo del governo diventavano virali nei social network e nei media, il panico ha preso il possesso delle strade boliviane, in modo particolare a La Paz.
La popolazione, più che uscire a “difendere la democrazia”, si è affrettata a prepararsi ad un possibile conflitto prolungato. Le lunghe file ai mercati, ai bancomat e alle stazioni di servizio riflettevano una società che, evocando gli eventi del 2019, si stava preparando al peggio.
La politica che organizza la confusione
Ci sono diverse ipotesi su quello che è successo quel giorno, e le narrative sono ulteriormente confuse dalla divisione del Movimiento al Socialismo (MAS) tra la fazione di Evo Morales e quella di Luis Arce, entrambe infatti vogliono il loro candidato per le elezioni del 2025.
La versione ufficiale punta al Generale Zúñiga come l’istigatore del tentato golpe, avendo come motivo la sua recente destituzione. Dall’altra parte, gli oppositori legati a Morales accusano il presidente Luis Arce di aver orchestrato un “auto golpe” fallito per aumentare la sua popolarità.
Tuttavia, scervellandoci per comprendere quale di queste versioni è la “verità” ci distraiamo e ci risulta difficile osservare un problema più profondo e preoccupante: il ruolo sempre più importante delle forze armate nella politica boliviana.
Questi eventi sono simili a quelli accaduti nel 2019, durante la crisi politica scatenata dopo le elezioni generali fallite che portarono alle dimissioni di Morales, a scontri civili e all’intervento violento delle forze armate e della polizia nazionale. Ieri come oggi, in quel momento, tutto ci venne presentato come un insieme di frammenti confusi e indecifrabili.
La presentazione dei fatti come pezzi sconnessi di un rompicapo impossibile, sembra costringerci a dover scegliere tra narrazioni semplicistiche che favoriscono l’una o l’altra parte. Sono narrazioni che cercano di esaltare e vittimizzare le persone al potere per recuperare legittimità e esasperare la polarizzazione, silenziando efficacemente le voci critiche.
Ciò che è accaduto il 26 giugno 2024 è stata, parafrasando Marx, la reiterazione come farsa della tragedia del 2019. È necessario costruire un’analisi più profonda che rompa l’inerzia immobilizzante di questa dinamica politica.
Portare il paese sull’orlo del baratro
La Bolivia attraversa una profonda crisi economica che si è intensificata negli ultimi mesi. La carenza di valuta estera, le difficoltà nell’acquistare combustibili, la precarizzazione del lavoro e l’aumento dei prezzi dei prodotti basici, sono sintomi di un problema strutturale: la dipendenza del paese dall’estrattivismo, che in questo momento è stata colpita dalla caduta del valore delle esportazioni di gas.
In questo contesto, gli eventi del 26 giugno, come sottolinea l’attivista femminista María Galindo, sono stati “un colpo alla società boliviana”. La breve ma impattante presenza militare nelle strade ha scatenato una serie di effetti economici immediati avversi, esasperando il panico in una società già sopraffatta dalla crisi.
L’ultimo decennio di politica statale boliviana è stato caratterizzato da una gestione irresponsabile che dà priorità agli interessi partitici rispetto al benessere collettivo. Questo ha portato ad un’erosione significativa delle istituzioni statali e all’indebolimento delle strutture comunitarie che storicamente sono state in grado di contrastare varie forme di violenza statale.
Un esempio emblematico di questa decomposizione istituzionale fu il disconoscimento del referendum del 2016, che cercava di limitare la possibilità di rielezione per un numero di volte indeterminato. In quel momento, il MAS dispiegò una serie di manovre per imporre una nuova candidatura di Evo Morales, minando la credibilità di istituzioni chiave come il Tribunale Costituzionale e l’Organo Elettorale. Diede spazio, inoltre, alla riorganizzazione di una destra ormai marcia, che ha utilizzato il discorso del “recuperare la democrazia” per rafforzare la sua posizione politica.
Attualmente la decomposizione statale si aggrava con l’auto-proroga incostituzionale dei mandati delle alte autorità giudiziarie, che hanno agito in alleanza con il governo di Arce.
Questa gestione discrezionale delle istituzioni degradate perpetua uno scenario di tensione permanente, disinformazione sistematica e uso della violenza come meccanismo di disciplinamento.
Decomposizione politica e protagonismo militare
A fine 2022, Jorge Richter, allora portavoce presidenziale di Arce, fece una dichiarazione rivelatrice sul ruolo delle forze armate in Bolivia. Affermò che il governo non poteva ridurre il bilancio militare perché in questa istituzione “risiede l’equilibrio del potere”.
L’affermazione di Richter espone crudamente l’importanza che hanno acquisito le forze armate; alla fine, sono gli scagnozzi che permettono di detenere il potere.
Negli ultimi anni, siamo stati testimoni di come le forze armate abbiano assunto funzioni che eccedono il loro mandato costituzionale: dal commentare la politica al dispiegare truppe senza autorizzazione e persino chiedere le dimissioni presidenziali.
Questo comportamento ci porta a supporre che le forze armate non operino in modo autonomo, ma come parte di alleanze extra-ufficiali con potenti attori politici.
La crescente intromissione delle forze armate nella sfera civile non solo rappresenta un rischio per la potenziale normalizzazione della presenza militare nella vita quotidiana della popolazione boliviana ma, più preoccupante ancora, è che l’equilibrio del potere politico nel paese sembra dipendere sempre più dal sostegno militare e dalla sua disposizione a sostenere leader o fazioni specifiche.
Questa dinamica minaccia di sovrapporsi non solo ai meccanismi della democrazia formale, ma anche ad altre forme di costruzione del potere autonomo all’interno della società. In sostanza, si sta creando uno scenario in cui l’influenza militare potrebbe eclissare i processi democratici e l’autonomia sociale, alterando profondamente la struttura politica della Bolivia.
Contro le forze armate
In Bolivia le forze armate sono il settore favorito delle istituzioni pubbliche, non solo per i privilegi che hanno, come essere gli unici che possono andare in pensione con il 100% dei loro stipendi, tra altri benefici sociali straordinari. Tra il 2005 e il 2022, la spesa militare è passata da 164 milioni di dollari a 672 milioni di dollari all’anno e non ha smesso di essere una priorità nonostante il deterioramento degli indicatori economici negli ultimi sette anni.
Di fronte a questo scenario, promuovere riforme che garantiscano che le forze armate rimangano nelle loro caserme e che si riducano al minimo, può aiutarci a rompere la dinamica paralizzante risultante da tanta confusione.
Tali riforme dovrebbero includere l’eliminazione del servizio militare obbligatorio, il porre limiti ai privilegi giudiziari ed economici del settore militare e la ristrutturazione del sistema gerarchico all’interno dell’istituzione militare.
Nel 2014, si verificò un fatto che sfidò la struttura tradizionale delle forze armate boliviane. Sottufficiali e sergenti, sostenuti dai ponchos rojos —una milizia aymara che nell’ultimo decennio ha appoggiato in diverse occasioni il governo del MAS— si mobilitarono chiedendo una riforma di “decolonizzazione” dell’istituzione militare.
L’obiettivo principale era eliminare il sistema gerarchico che divide le forze armate in classi (sottufficiali e sergenti) e ufficiali. Questo sistema, che prevale nella maggior parte degli eserciti del mondo, permette di sostenere un’élite militare, che finisce per essere quella che gestisce l’alleanza delle forze armate con le classi dominanti e le élite politiche.
I riformisti cercavano di implementare un sistema di promozioni egualitario. Tuttavia, il governo di Morales, in una delle decisioni più conservatrici del suo mandato, rispose con la minaccia di destituzione di tutti i sottufficiali e sergenti coinvolti nella protesta. Quella reazione rivelò la riluttanza del governo a modificare lo status quo militare, anche quando ciò contraddiceva la sua retorica di trasformazione sociale.
Sebbene il tentativo di riforma militare proposto nel 2014 non fosse ideale, evidenziò che i cambiamenti nelle forze armate sono tanto necessari quanto fattibili, e possono diventare percorsi di contestazione chiari ed efficaci.
Fermare il potere crescente delle forze armate vuol dire uscire dai quadri della politica polarizzante in cui cercano di metterci. Oggi rappresenterebbe uno sforzo rinnovato per affrontare l’alto grado di decomposizione all’interno dello stato boliviano.
Articolo disponibile al link: https://www.ojala.mx/es/ojala-es/tanquetas-y-descomposicion-politica-en-bolivia
Huáscar Salazar Lohman è un economista boliviano. Ha scritto il libro “Se han adueñado del proceso de lucha” e recentemente ha partecipato al libro collettivo “Pensando la vida en medio del conflicto”. È ricercatore presso il Centro de Estudios Populares (CEESP).