Acqua Bene Comune? Non è una priorità…

il: 15 Maggio 2013

Dopo la vittoria referendaria del 2011, i sostenitori espliciti della privatizzazione del servizio idrico si sono ulteriormente assottigliati. A dire il vero, passata la stagione dell’ubriacatura del “privato è bello”, il cui apice può essere collocato tra i primi anni 2000 fino all’emergere della crisi nel 2008, già avevamo visto che la schiera dei fautori della privatizzazione tendeva a diminuire, fino ad un’interessata “diserzione di massa” durante la campagna referendaria, affrontata da gran parte dei nostri oppositori all’insegna del “tanto i referendari non raggiungeranno il quorum” …

Ne è stata una conferma indiretta la composizione, tutto sommato ridotta e scalcagnata, del Comitato per il NO al referendum.
Quest’assottigliamento dei sostenitori espliciti delle privatizzazioni va presa alla lettera, cioè riguarda i soggetti che dichiarano in modo chiaro e convinto che la privatizzazione del servizio idrico è portatrice di benefici al suo funzionamento e ai cittadini e non può in ogni caso essere confusa con l’area, questa sì relativamente vasta, di chi, senza dichiararlo e senza avere il coraggio di formularla come tesi, invece vuole che i processi di privatizzazione continuino e magari si rafforzino.

E’ soprattutto da qui che è provenuto e continua un attacco forsennato all’esito referendario, nonostante i ripetuti interventi degli organi di garanzia e della magistratura amministrativa, dalla Corte Costituzionale al Consiglio di Stato. A questi silenti sostenitori della primazia del mercato, per lo più animati da interessi reali consistenti o da un’ideologia ormai sempre più fragile ma che non è possibile mettere in discussione – altrimenti gli crolla il mondo, quello loro, perché quello reale è già percorso da forti scossoni -, si affianca una pattuglia, questa non penso molto numerosa ma comunque esistente, di chi condivide in buona fede gli obiettivi dell’affermazione dell’acqua come bene comune e della ripubblicizzazione del servizio idrico, ma pensa che non esistono le condizioni economiche e politiche per realizzarli.

Ovviamente, l’insieme di tutti questi soggetti è però seriamente minoritaria nel Paese, come la vittoria referendaria si è incaricata di dimostrare, visto che da essa è emersa che la maggioranza assoluta dei cittadini italiani ha indicato un’altra strada. Dedico le riflessioni che seguono alla due ultime categorie di soggetti – i privatizzatori silenti e i teorici incapaci di progettare il futuro – perché penso possa finire anche il tempo di quelli che “non c’è altro da fare” o “ sarebbe bello, ma non è possibile”.

Non ci sono le risorse …
Una delle obiezioni classiche alla fattibilità della ripubblicizzazione del servizio idrico è che non ci sono le risorse per compiere questo processo. Il più delle volte quest’affermazione viene proposta, da una parte, come assioma indiscutibile, magari accompagnata da ulteriori ragionamenti talmente banalizzati per essere incontestabili, tipo “non si potrà mica fare ricorso alla fiscalità, che già di tasse ne paghiamo troppe” oppure “non si vorrà far crescere ancora il deficit pubblico”. Nel repertorio del  “piccolo conservatore privatizzatore” – in cui rientrano i privatizzatori silenti e i pessimisti rassegnati – non può poi mancare il famoso ragionamento “ma come è possibile realizzare i forti investimenti di cui il servizio idrico ha bisogno con la gestione pubblica”, in molti casi, poi, corredato con un finto e ipoc rita apprezzamento verso il movimento per l’acqua pubblica, della serie “comprendiamo il vostro spirito e le vostre idealità, ma bisogna occuparsi delle cose reali e della concretezza dei problemi”.
Andando a ritroso e lasciando da parte i complimenti pelosi, che in realtà non solo sono fuorvianti ma misconoscono una delle principali caratteristiche del movimento per l’acqua, che da sempre si è cimentato con l’elaborazione di proposte alternative e fattibili nel merito delle tematiche, anche di natura economica, che hanno a che fare con il servizio idrico, vale la pena soffermarsi sulla questione dei forti investimenti di cui necessita il servizio idrico.

Il dato di partenza, su cui tutti gli studi concordano, è che, nei prossimi 20 anni (o 30) gli investimenti da mettere in campo assommano a circa 40 miliardi (o 60) di euro, in ogni caso circa 2 mld. di euro annui, di cui circa il 57% per nuove opere e il restante 42% in manutenzione straordinaria e, cioè, in primo luogo dedicati alla ristrutturazione della rete esistente, la cui obsolescenza è una delle cause principali dell’abnorme fenomeno delle perdite dell’acqua immessa, che supera come dato medio nazionale il 30%.

Intanto bisogna partire da un principio di realtà e cioè che l’attuale meccanismo, basato sul full cost recovery, cioè sulla copertura integrale dei costi del servizio idrico nelle tariffe, il cui presupposto stava proprio nel contributo dei soggetti privati, non ha funzionato, anzi ha fallito proprio sul tema della realizzazione degli investimenti. Su questo punto la svolta avviene con la legge Galli del 1994, una delle cui filosofie è rappresentata proprio dall’idea che per realizzare gli investimenti occorre l’intervento del soggetto privato, per cui occorre un nuovo sistema tariffario che, da una parte, copra tutti i costi del servizio e, dall’altra, riconosca un’adeguata remunerazione del capitale come corrispettivo degli investimenti da mettere in atto.
E’ questa l’ispirazione del metodo tariffario normalizzato del 1996 che, non a caso, prevede, nella sostanza che la tariffa copra i costi operativi del servizio, gli ammortamenti del capitale investito e la remunerazione del capitale investito nella misura del 7%, poi abrogata con i referendum del 2011.
Il fallimento del meccanismo del full cost recovery è ben testimoniato da dati incontrovertibili: il primo dato eclatante (fonte elaborazioni CoViRi su dati ISTAT) riguarda il vero e proprio crollo degli investimenti che si è realizzato tra gli inizi degli anni ’90 e i primi anni 2000, gli anni in cui iniziano ad affermarsi i processi di privatizzazione: si passa dai circa 2 mld. euro annui a circa 700 mil. annui, praticamente due terzi in meno.
L’altro punto di riferimento di fondo è rappresentato dallo scostamento rilevante tra gli investimenti previsti e quelli realizzati.

Utilizzando gli ultimi dati disponibili, quelli del CoViRi (Rapporto sullo stato dei servizi idrici, luglio 2009), che ci dicono che, negli ultimi 3 anni presi in considerazione, il tasso di realizzazione degli investimenti è pari al 56%: rispetto ai 5,9 mld. euro di investimenti già previsti nei Piani d’Ambito, ne sono stati realizzati circa 3,3 mld. La conferma di questa grave situazione si evince anche dalle  revisioni triennali finora realizzate dei Piani d’Ambito, che testimoniano il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti in termini di investimento e, ancor più, lo spostamento temporale degli stessi.
Il numero di revisioni disponibili a fine aprile 2009 risulta essere pari a 17, mentre i dati relativi alle componenti legate agli investimenti (ammortamenti e remunerazione del capitale) si riferiscono a 15 revisioni. Partendo dal fatto che è possibile ipotizzare che una minore quantità di ammortamenti (e di remunerazione del capitale) è correlata ad una minore quantità di investimenti effettuati, non può non destare allarme il fatto che 13 piani revisionati su 15 presentano una correzione al ribasso sia degli ammortamenti che della remunerazione del capitale.
Va  inoltre considerato come, nella determinazione della tariffa in pressoché tutti i Piani d’Ambito, il consumo d’acqua viene costantemente sovrastimato. Come efficacemente dimostrato,  la crescita ipotizzata dei consumi nella misura dell’1% annuo è decisamente (e per fortuna) poco attendibile, ma ciò comporta il venir meno, a seconda degli scenari, tra il 10 e il 15% dei ricavi previsti, con l’ovvia conseguenza di ulteriore minore copertura degli investimenti programmati.

Del resto, la scelta, insita nel sistema, di mettere in capo ai soggetti gestori di natura privatistica la responsabilità dell’effettuazione degli investimenti determina, stante il loro obiettivo di massimizzazione dei profitti, un’oggettiva subordinazione della decisione di investimento a quella priorità. Né ciò appare scongiurato dal tanto invocato potenziamento del ruolo regolatorio da parte del pubblico, vista l’acclarata “asimmetria informativa” tra soggetto gestore e soggetto regolatorio.
Insomma, il tema delle risorse da reperire per effettuare gli investimenti è certamente una questione rilevante, ma per svolgerlo bene si tratta, in primo luogo, di avere presente che l’attuale sistema di finanziamento del servizio idrico è completamente inefficace da questo punto di vista e che, certamente, non può essere una soluzione quella di far tornare a capo del pubblico gli investimenti, mantenendo contemporaneamente per i soggetti gestori, come gli stessi vorrebbero a maggior ragione dopo l’approvazione del nuovo Metodo Tariffario Transitorio, la remunerazione del capitale investito. Questo sì sarebbe un esempio eclatante di “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”, che conferma, a contrario, che un nuovo sistema di finanziamento del servizio idrico che contempli un significativo intervento pubblico non è politicamente compatibile con il fatto di estrarre profitti dal servi zio idrico e richiede forme gestionali di tipo pubblicistico.

La proposta che, a partire dalla propria legge di iniziativa popolare, il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua avanza per il finanziamento del servizio idrico si basa sul fatto di avvalersi di una pluralità di forme per questo scopo, combinando al meglio l’ utilizzo dello strumento tariffario con l’intervento della finanza pubblica e della stessa fiscalità generale.
Lo schema cui facciamo riferimento è quello per cui la tariffa dovrebbe coprire i costi di gestione del servizio e il costo (quota capitale + quota interessi) degli investimenti coperti dall’intervento della finanza pubblica, mentre le risorse per gli investimenti proverrebbero in parte dalla finanza pubblica e in parte dalla fiscalità generale.
Si può assumere, per avere un riferimento, che la finanza pubblica garantisca gli investimenti per la manutenzione straordinaria, mentre la fiscalità generale quella per le nuove opere. La fiscalità generale inoltre dovrebbe servire anche per coprire i costi relativi al quantitativo minimo vitale (50 litri/abitante/giorno) da garantire in termini universali: diventa poi necessario indicare la copertura di tale intervento della fiscalità, in termini di maggiori entrate o minori spese, in termini che la manovra non comporti incremento né del deficit e né del debito pubblico.

Ovviamente questo è uno schema, che ha margini di flessibilità al proprio interno e dunque suscettibile di modificazioni, ma a me pare sufficientemente chiaro: la fiscalità interviene per garantire un diritto fondamentale, il quantitativo minimo vitale, e gli investimenti strutturali, la finanza pubblica per gli investimenti di manutenzione/ristrutturazione delle reti e degli impianti esistenti, la tariffa per coprire i costi di gestione del servizio e il costo degli investimenti (compresi gli interessi) da imputare ad essa perché effettuati con capitale di terzi.
E’ chiaro che, in quest’impostazione, nei costi di gestione rientrano i “veri” oneri finanziari che il soggetto gestore pubblico deve accollarsi rispetto al capitale erogato dalla finanza pubblica. Mi tocca, parlando di oneri finanziari, usare la dizione “veri”, perché, come vedremo dopo, l’Authority per l’Energia Elettrica e il Gas sta utilizzando il tema del riconoscimento degli oneri finanziari in modo truffaldino, in realtà per reintrodurre la remunerazione del capitale abrogata con il secondo referendum sull’acqua.

A questo punto, può essere utile costruire una simulazione degli effetti complessivi dell’intervento che abbiamo provato a descrivere prima. Essa va, ovviamente, presa come riferimento generale, nel senso che gli organi di grandezza sono approssimativi, proprio perché partiamo da una base di dati che ha in sé questa caratteristica e che, allo stato attuale, ci muoviamo entro una logica statica, cioè non prevedendo lo sviluppo temporale per tutto il periodo preso in considerazione.
Per arrivare a produrre tale simulazione, può essere utile riepilogare alcune grandezze di fondo che riguardano il servizio idrico nel nostro Paese. Questi dati provengono da nostre elaborazioni costruite da fonti ISTAT (Censimento delle risorse idriche a uso civile, 2008), CoViRi (Relazione annuale al Parlamento sullo stato dei servizi idrici 2007 e Rapporto sullo stato dei servizi idrici, 2009 e BlueBook 2008-2011).
Il primo dato di riferimento è relativo all’acqua erogata nel 2008 che risulta essere pari a circa 4,6 mld mc e che, prendendo il valore della tariffa media unitaria nella misura di 1,52 euro/mc, determina un monte tariffe annuo complessivo pari a circa 7 mld di euro. Il quantitativo minimo vitale, pari a 50 lt/giorno/abitante, corrisponde ad un valore di circa 1,6 mld euro/anno, il che significa che incide sulla tariffa media unitaria per circa il 23%, pari a 0,36 euro/mc.

La tariffa media unitaria nel 2012 risulta essere, come preso a riferimento, di 1,52 euro/mc, scomposta in 0,92 euro/mc relativa ai costi operativi; 0,34 euro/mc relativa all’ammortamento del capitale e 0,26 euro/mc come remunerazione del capitale investito. Infine, dei 40 mld di euro occorrenti per gli investimenti nei prossimi 20 anni, sulla base della ripartizione prevista di circa il 42% in manutenzione straordinaria e il restante 58% in nuove opere, circa 16,8 mld vengono finanziati con il ricorso a Cassa Depositi e Prestiti, erogabili anche in più tranches, e gli altri 23,2 con il ricorso alla fiscalità generale. La fiscalità generale contribuisce dunque al finanziamento del sistema per circa 2,8 mld/anno per coprire gli investimenti in nuove opere e garantire il quantitativo minimo vitale.

Sulla base di queste ipotesi, rispetto all’attuale tariffa di 1,52 euro /mc, che dovrebbe coprire tutti i costi del sistema, ma con i gravi handicap che abbiamo già visto a proposito della mancata realizzazione degli investimenti e scontando che nei prossimi 20 anni essa subirebbe ulteriori significativi incrementi, la proposta prevede il finanziamento da parte di Cassa Depositi e Prestiti per 16,8 mld euro, il cui costo annuo, relativo ad un piano di ammortamenti, comprensivo di quota capitale e quota interessi, calcolato con il metodo francese su un periodo di 20 anni e con un tasso di interesse pari al 3,65% (rendimento BTp a 5 anni), ammonta a circa 1,2 mld. euro, che vengono caricati sulla tariffa. Dunque, la tariffa unitaria media si attesta a 1,16 euro/mc (0,92 euro per i costi operativi + 0,26 per il costo del debito, costo capitale + interessi), con un risparmio decisamente significativo rispetto al livello attuale, mentre la fiscalit&agrav e; generale deve intervenire per circa 2,8 mld euro annui (1,2 mld per finanziare gli investimenti in nuove opere + 1,6 mld per coprire il quantitativo minimo vitale).
Va sempre ricordato, per quanto riguarda il valore della tariffa, che ragioniamo in termini di media nazionale e che tale valore dovrà comunque prevedere un’articolazione interna costruita, in primo luogo, sulla base delle fasce di consumo volumetrico.

Tornando al ruolo della fiscalità generale, avendo assunto che non ci possa essere un aggravio sul deficit e debito pubblico, e cioè il vincolo del saldo zero della manovra, occorre individuare risorse corrispondenti per far fronte ai 2,8 mld euro di maggiore spesa annua. Il ragionamento che avanziamo in proposito, semplicemente a titolo esemplificativo, è che 1,63 mld provengano da maggiori entrate legate alla lotta all’evasione fiscale, circa 0,5 da una tassa di scopo pari a 5 centesimi su ogni bottiglia PET di 1,5 lt. (il consumo procapite annuo è di circa 180 bottiglie PET), mentre i rimanenti 0,67 si possono ottenere tagliando gli investimenti già previsti e stanziati per l’acquisto dei 131 cacciabombardieri F35, pari a 13,5 mld per i prossimi 13 anni.
Ovviamente, questi sono interventi ipotizzati a titolo esemplificativo, perché altri similari potrebbero essere studiati e messi in campo.
Insomma, l’ipotesi che avanziamo riesce a produrre un significativo abbattimento delle tariffe insieme alla certezza e all’accelerazione degli investimenti nel settore idrico, a riprova non solo del fatto che è possibile costruire un meccanismo alternativo rispetto al full cost recovery, ma che esso comporta minori costi per i cittadini e da’ risultati molto più utili anche dal punto di vista dell’efficacia economica: anche da questo punto di vista, emerge con chiarezza che la privatizzazione del sistema produce effetti del tutto opposti.

Assieme al tema di un nuovo sistema di finanziamento del servizio idrico, va poi affrontato il capitolo dei costi della ripubblicizzazione dei soggetti gestori. Già con la proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua avevamo ipotizzato la costituzione di un Fondo Nazionale per la Ripubblicizzazione, alimentato da risorse statali, visto che non è pensabile che a ciò provvedano i singoli Enti Locali, finalizzato a riacquisire le quote detenute da soggetti privati. Da questo punto di vista, partiamo da una situazione nella quale la maggioranza delle gestioni del servizio idrico è tuttora svolto da Spa a totale pubblico, dove non si pone la questione del riacquisto di quote azionarie, i soggetti totalmente privati sono molto limitati e di dimensioni sostanzialmente piccole, mentre le gestioni miste, sia per dimensione che per rilievo, sono sostanzialmente concentrate nelle grandi mul tiutilities quotate in Borsa. Per esemplificare, la gran parte delle gestioni toscane, da sempre ispirate al modello misto maggioranza publica-minoranza privata, vedono la presenza di quest’ultima sostanzialmente rappresentata da ACEA, a sua volta Spa mista quotata in Borsa.
Insomma, con un po’ di semplificazione, possiamo sostenere che il tema del riacquisto delle quote azionarie dei soggetti privati si concentra e si sovrappone a quello della ripubblicizzazione dei grandi soggetti quotati in Borsa (A2A, IREN, ACEA, ACSM, AGAM e HERA – ACEGAS APS considerate, quest’ultime due, ancora separatamente visto che i dati di bilancio si riferiscono al 2011, prima della loro fusione avvenuta in questi mesi).

Facendo una breve analisi dei principali dati economici connessi a questo punto, relativi alle multiutilities quotate in Borsa e all’incidenza che il servizio idrico ha in esse, si evince che un’operazione di riacquisto delle quote azionarie, che ha caratteristiche di un esborso una-tantum, può variare tra i 371,4 mln. di euro e i 523, 7 milioni, a seconda se si prende come riferimento il valore della capitalizzazione di Borsa (fortemente calato in questi anni di crisi) o il patrimonio netto aziendale.
A queste cifre si devono aggiungere risorse, peraltro limitate, come abbiamo visto prima, delle altre riacquisizioni relative ad altre SpA miste non comprese tra i 6 colossi quotati, così come vanno previste ulteriori poste per intervenire in quelle sciagurate situazioni (penso a Genova), dove si è persino arrivati a cedere reti ed impianti ai soggetti gestori misti. In ogni caso, una stima “spannometrica” ma sufficientemente suffragata dalla realtà esistente può portarci a dire che una dotazione una-tantum di 1 mld. di euro al Fondo Nazionale per la Ripubblicizzazione sarebbe più che in grado di affrontare i costi della ripubblicizzazione dell’intero servizio idrico. Tale dotazione, poi, potrebbe essere coperta tramite la sua anticipazione da parte di Cassa Depositi e Prestiti che comporterebbe, sempre con il meccanismo descritto a proposito degli investimenti che la stessa CDP dovrebbe finanziare (durata ven tennale a un tasso dl 3.65%  pari a quello del BtP a 10 anni), un esborso annuo di circa 70 milioni di euro, cifra più che abbordabile e da aggiungere in carico all’intervento della fiscalità generale.

Quest’impostazione certamente prevede un intervento assai significativo da parte di Cassa Depositi e Prestiti, ma ciò è senz’altro possibile rispetto alla situazione della stessa CDP, che è attualmente la banca più solida e liquida del Paese. A questo proposito, basta ricordare alcuni dati desumibili dal bilancio 2012 della CDP: esso viene chiuso con un utile di 2,85 mld. di euro (+ 77% rispetto al 2011), di cui 1 verrà distribuito sotto forma di dividendi; gli interventi effettuati a favore di Enti pubblici, infrastrutture e imprese ammontano a circa 22 mld, anch’essi in crescita rispetto al 2011, supportati dalla raccolta postale che arriva nel 2012 a 233 mld e da una liquidità di ben 139 mld. di euro. Peraltro, in questi ultimi anni, CDP impronta la propria azione sempre più verso le imprese e meno nei confronti degli Enti pubblici e finanzia operazioni che guardano alla privatizzazione del sis tema dei servizi pubblici locali (da ultimo con erogazioni ad HERA-ACEGAS e IREN per valori di 100 mil. ciascuno), mentre diventa sempre più evidente che occorre ripristinare la “vocazione originaria” di CDP, che era appunto quella di sostenere Enti e servizi pubblici.

In questo senso va anche la proposta, avanzata dal movimento romano per l’acqua, in attesa di una legislazione nazionale per la ripubblicizzazione del servizio idrico, di farla intervenire per la ripubblicizzazione del ramo idrico di ACEA, proposta che si basa sull’accensione di un mutuo ventennale pari a 275 mil. di euro con CDP per riacquisire e trasformare il ramo idrico di ACEA in Azienda speciale.


… e il pubblico è inefficiente

A questo punto, sempre nel manualetto del “piccolo conservatore privatizzatore”, compare un’altra obiezione: la gestione pubblica trascina con sé inevitabili elementi di inefficienza. Il modello di finanziamento da noi prospettato – viene detto -, in linea teorica, potrebbe anche andare bene, ma poi, nella sua applicazione concreta, si scontra con comportamenti che derivano dalla gestione pubblica e che fanno sì che essa non funzioni: l’invadenza della politica che determina uno sviamento delle finalità del servizio verso la costruzione del consenso, a partire da scelte di natura clientelare, i manager che gestiscono, fondamentalmente interessati alla loro autoperpetuazione, i lavoratori che mettono in atto strategie di carattere corporativo e di attaccamento ai loro “privilegi”.
Ora, al di là della natura ideologica di gran parte di quest’affermazioni, nel senso che si presuppone un modello astratto, peraltro non verificato né verificabile, di gestione pubblica, non c’è dubbio che nel nostro Paese, in particolare in questi ultimi anni, la regressione di gran parte del ruolo della politica ha dato buoni punti d’appoggio a questa tesi. Ma ciò non può oscurare due ragionamenti, con cui i teorizzatori della cattiva gestione da parte del pubblico evitano accuratamente di misurarsi: il primo è che il decadimento della politica cui assistiamo è un prodotto di volontà e di situazioni che si sono venute progressivamente a creare (e che sarebbe troppo lungo da affrontare ora e laterale rispetto ai temi oggetto di questa riflessione), e non una sorta di portato eliminabile, direi quasi “esistenziale”, della politica stessa.

La seconda, ben più rilevante in questo contesto, è che quando noi parliamo di gestione pubblica non lo facciamo avendo come riferimento semplicemente il fatto che essa si realizza con un’operazione di natura sostanzialmente giuridica, di fuoriuscita dal campo del diritto privato per approdare a soggetti di diritto pubblico. In realtà, la nostra idea di ripubblicizzazione è intimamente connessa a quella di un nuovo approccio e di una nuova definizione della gestione pubblica, che è tale nella misura in cui favorisce e struttura processi forti di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori e, quindi, di allargamento della democrazia. Per dirla a mo’ di slogan, per noi la ripubblicizzazione del servizio idrico si attua con il binomio gestione tramite Enti di diritto pubblico + democrazia partecipativa. Questo ragionamento, sulle forme della democrazia e sulla partecipazione, peraltro, scaturisce sia dal fatto di coll ocarsi sul terreno della gestione dei beni comuni, superando quindi la semplice dicotomia pubblico-privato e qualificando appunto la gestione pubblica con l’innesto di una partecipazione attiva dei soggetti che sono titolari dei beni comuni, sia dalla constatazione che un processo di controllo “dal basso” può costituire un solido antidoto alla separatezza delle gestioni di carattere tecnocratico o espressioni di ceto politico.

Del resto, non mancano esempi concreti già sperimentati e che vanno utilmente in tale direzione: lasciando ora un attimo da parte le esperienze di Parigi e Napoli, anche perché relativamente “ giovani”, può essere interessante far riferimento a quanto messo in campo a Grenoble, dove il processo di ripubblicizzazione, che data alla fine degli anni ’90, si è compiuto anche dando vita ad una “Consulta dell’acqua”, composta da rappresentanti delle Associazioni e dei cittadini, con ampi e robusti poteri consultivi, che ha certamente contribuito al fatto che, rispetto alla precedente gestione privata, la nuova gestione pubblica, nel decennio successivo, ha sostanzialmente tenute ferme le tariffe e triplicati gli investimenti. In ogni caso, se, da una parte, non è pensabile costruire una sorta di astratta modellistica sui meccanismi partecipativi, dall’altra, è indubbio che tale element o è assolutamente fondamentale per far avanzare una nuova prospettiva di efficacia e controllo dell’intervento pubblico. Per stare su un terreno esemplificativo, mi pare utile riprendere una serie di ragionamenti che, a più riprese, sono già stati avanzati dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua. In particolare, occorre connettere tra di loro almeno tre fasi del processo partecipativo: quella preliminare, relativa al diritto e alla socializzazione delle informazioni riguardanti l’utilizzo della risorsa acqua e il servizio idrico, vista come prerequisito per costruire le condizioni di una partecipazione consapevole.

Si tratta poi di strutturare un percorso largo e aperto, di natura assembleare, che consenta ai lavoratori e alla cittadinanza di poter intervenire sulle scelte strategiche che informano la gestione del servizio. Questo passaggio, mutuato dall’esperienza del bilancio partecipativo, si può basare sul fatto di avere due sessioni pubbliche annuali di presentazione e discussione delle scelte di fondo che riguardano il servizio idrico (obiettivi del servizio e sua qualità, tariffe, investimenti, bilancio economico ecc.). Tali sessioni potrebbero svolgersi in forma di Consigli Comunali aperti alla cittadinanza all’inizio e alla fine di ogni anno e, allo stesso modo, in Assemblee congiunte dei Consigli Comunali e della cittadinanza a livello dell’ATO di riferimento. Tali momenti assembleari non hanno carattere decisionale, che rimane in capo alle Assemblee elettive e all’ATO, ma sono un luogo di discussione e consultazione nei quali si può fa r valere la voce dei cittadini, in forma organizzata o meno. Infine, non meno significativa è l’organizzazione della partecipazione nella fase vera e propria della gestione del soggetto pubblico incaricato della stessa. Da questo punto di vista, si può percorrere la strada della presenza di una rappresentanza dei cittadini e delle loro forme organizzate all’interno del Consiglio di Amministrazione del soggetto gestore, mentre, per quanto riguarda la presenza dei lavoratori e dei loro rappresentanti, per salvaguardare la distinzione dei ruoli e lo stesso potere contrattuale dei lavoratori, si può pensare di affiancare al Consiglio di Amministrazione una sorta di Consiglio di Sorveglianza, con compiti di verifica e controllo.

In ogni caso non è una priorità

A questo punto, qualcuno potrà pensare che le risorse argomentative alle quali attinge chi contrasta le nostre impostazioni siano pressoché esaurite. Ebbene, no: c’è sempre chi avanza ulteriori controindicazioni. Una di queste, che ogni tanto ricompare, è che, dentro la crisi che vive il Paese e in un quadro di risorse molto scarse a disposizione, la ripubblicizzazione del servizio idrico non può certamente essere considerata una priorità di intervento. Ben prima arriva il tema del lavoro o la riduzione della pressione fiscale o, ancora, la messa al riparo e il potenziamento del sistema di Welfare “classico”: volete forse voi sostenere che è più importante investire nel servizio idrico piuttosto che nel sostegno al lavoro o nel costruire più asili nido o affrontare la tematica dell’autosufficienza, oggi sostanzialmente priva di un reale intervento pubblico?
Ovviamente, non ci lasceremo portare su questo terreno di discussione del tutto strumentale e costruire una discussione assurda come sarebbe quella di stilare la “classifica” degli interventi più importanti e urgenti, in un perimetro che comunque vede in campo il fatto di garantire fondamentali diritti di cittadinanza, siano essi il lavoro o i servizi pubblici. Nello stesso tempo, mi interessa, però, avanzare alcuni ragionamenti che mi sembrano meritevoli di considerazione.

In primo luogo, occorre ripartire dal costo degli interventi previsti in carico al bilancio pubblico, che abbiamo visto ammontare a circa 2,8 all’anno, senza considerare l’esborso per la ripubblicizzazione, cioè dell’acquisizione delle quote societarie dei soggetti privati, che ha natura comunque di un esborso una-tantum. Si può tranquillamente sostenere che non siamo in presenza di importi così rilevanti, ma soprattutto penso si debba vedere anche il versante degli effetti importanti che essi producono. Infatti, vanno rilevate almeno altre due questioni insite nella nostra proposta: la prima è la significativa accelerazione degli investimenti. Infatti, ci pare corretto stimare che nei primi 5 anni di questo Piano straordinario di investimenti e di ridefinizione del sistema di finanziamento si possono concentrare circa 23 mld di investimenti (16,8 mld derivanti dall’intervento di finanza pubblica + 1,2 mld per 5 anni dalla fiscalità generale)  sul totale dei 40 previsti nell’arco dei 20 anni, ben 18 in più di quelli previsti con il meccanismo attuale, che peraltro presenta tassi di realizzazione decisamente bassi. Inoltre, quest’accelerazione si produrrebbe in particolare negli investimenti di ristrutturazione delle reti idriche, con un recupero di efficienza molto significativo rispetto all’obiettivo di diminuire in modo drastico le attuali perdite di rete, stimate ad un livello medio superiore al 30%.

Il secondo aspetto che va sottolineato è l’evidente funzione anticiclica che tale mole di investimenti può svolgere in un periodo di crisi economica com’è quella che stiamo attraversando. Siamo infatti in presenza di un’ipotesi classicamente keynesiana, di maggiore spesa per investimenti pubblici con le positive ricadute occupazionali che essa comporta. In particolare, utilizzando i dati che provengono dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, si può stimare che, con l’accellerazione degli investimenti nei primi 5 anni rispetto a quelli normalmente eseguibili, l’incremento occupazionale, tra attività diretta ed indotta, potrebbe attestarsi attorno alle 150-200.000 unità.
In secondo luogo, se proprio occorre costruire un’alternativa o persino una contrapposizione tra interventi diversi, allora questo lo possiamo fare rispetto alle risorse stanziate per altre opere pubbliche ed evidenziare come il piano straordinario di investimenti per il servizio idrico può definirsi come un piano di “tante piccole opere” che esprime una filosofia assai differente rispetto a quello delle “grandi opere”.
Qui il ragionamento si dispiega in termini decisamente lineari: se consideriamo semplicemente il costo preventivato per il Ponte sullo stretto di Messina pari a circa 4 mld. di euro e quello, stimato prudenzialmente, tra la ridda delle varie cifre che sono circolate in proposito, in circa 13 mld per la realizzazione del TAV in Val di Susa, arriviamo ad una somma che corrisponde a quasi tutta la metà delle risorse necessarie per gli investimenti nel settore idrico per i prossimi 20 anni.
Da ultimo, non si può dimenticare che sul tema della ripubblicizzazione del servizio idrico si sono svolti i referendum del giugno 2011, visto che i 2 quesiti referendari sull’acqua e sui servizi pubblici locali, al di là del loro esito giuridico, hanno dato politicamente con forza quest’indicazione. Ora, soprattutto in una situazione di palese distacco tra cittadini e politica, il tema della democrazia, del rispetto dell’esito referendario, non può essere derubricato a questione secondaria: anzi, chi sente acutamente il tema della crisi economica e sociale non può non attribuire alla questione della democrazia non solo un valore in sé, ma proprio una risorsa fondamentale per affrontare il groviglio dei nodi che essa ci consegna. Solo una visione economicista e contabile riesce a mettere da parte il fatto fondamentale che le risorse che si possono mettere in campo in una stagione difficile come quella che stia mo attraversando possano prescindere dal grado di consapevolezza e di mobilitazione collettiva che si possono produrre attorno a tematiche che ormai si sono imposte nell’agenda politico-sociale e anche nella coscienza delle persone, come quelle rappresentate dall’acqua e dai beni comuni.

Le obiezioni “tecniche”

Infine, arriviamo alle “obiezioni” di natura tecnica che, solitamente, vengono avanzate in modo quasi neutro, quando non si riesce più a sviluppare argomentazioni di impostazione e di carattere “strategico”, quali quelle che abbiamo visto prima. Allora, prima difficoltà di ordine “tecnico” che viene sollevata, è che la scelta della gestione tramite Azienda speciale diventa impraticabile rispetto al suo l’assoggettamento al Patto di stabilità interno degli Enti Locali, e ai vincoli che ne derivano, fortemente penalizzanti rispetto alla possibilità di fare investimenti e nella gestione del lavoro.
Ora, va chiarito una volta per tutte che tale assoggettamento, allo stato attuale, non esiste né per le Aziende speciali né per le Spa a totale capitale pubblico, perché, se è vero che ciò è stato previsto dal governo Monti con il “decreto liberalizzazioni”  di inizio 2012, è altrettanto vero che il decreto attuativo di tale provvedimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze non è mai stato emanato, e, dunque, siamo in presenza di una previsione che non ha applicazione.
Una variante di questo tema proviene da chi si è letteralmente inventato che, in caso di passaggio da Spa a totale capitale pubblico ad Azienda speciale, i debiti andrebbero a gravare sui bilanci degli Enti locali, ignorando o facendo finta di ignorare che la situazione creditoria e debitoria semplicemente traslano dall’una all’altra, visto che anche l’Azienda speciale è azienda a tutti gli effetti, dotata di autonomia imprenditoriale e di personalità giuridica e,conseguentemente, iscritta al Registro delle imprese.

Un secondo ordine di obiezioni proviene dalla stessa fattibilità di realizzare l’Azienda speciale, in specifico dalle difficoltà di ordine legislativo e normativo presenti. Non potendo più invocare, dopo la vittoria referendaria, il fatto che tale soluzione non era praticabile rispetto alla normativa sugli affidamenti dei servizi pubblici, visto che ora la normativa comunitaria lascia ampia libertà di scelta in proposito, questo blocco di opposizione si incentra su due punti: il primo che non è espressamente prevista dal Codice Civile la trasformazione da società di capitali in Azienda speciale, la seconda che il decreto sulla spending review n. 95/2012 – uno degli ultimi “regali” del governo Monti – con l’art.9 comma 6 vieterebbe la costituzione di nuovi organismi, comprese le Aziende speciali, per gestire funzioni fondamentali degli Enti locali.
Sul primo punto, basta citare l’esperienza napoletana, che ha effettuato il passaggio da ARIN Spa a totale capitale pubblico a ABC Azienda speciale ricorrendo all’art. 2500 septies del Codice Civile (trasformazione eterogenea da società di capitali), atto legittimato dal Presidente del Consiglio Nazionale del Notariato, mentre per quanto riguarda la seconda questione, al di là della dubbia legittimità costituzionale della norma, impugnata davanti alla corte Costituzionale, essa è affrontabile ricorrendo appunto all’istituto della trasformazione di società anziché alla costituzione ex novo di un’Azienda speciale.

Poi c’è tutto il capitolo riguardante la situazione dei lavoratori e, in specifico, quella del loro passaggio da una SpA di natura privatistica ad un’Azienda speciale soggetto di diritto pubblico. Anche qui le obiezioni che vengono frapposte sono di scarsa consistenza, a partire dall’assunto, molto spesso volutamente ignorato, che le Aziende speciali sono sostanzialmente un Ente pubblico economico, soggetto di diritto pubblico ma dotato di autonomia imprenditoriale, autonoma personalità giuridica, imprese a tutti gli effetti, tant’è che devono iscriversi al Registro delle imprese, e applicano, per alcune materie compresa quella di carattere lavoristico, le norme del diritto privato.
Dunque, da questo punto di vista, anche se c’è chi continua a sostenere tesi diverse, non sussistono particolari problemi per il mantenimento dei contratti nazionali di lavoro di carattere privatistico (nel caso del servizio idrico in generale quello di Federgasacqua), né in relazione al passaggio dei lavoratori dalla “vecchia” azienda alla “nuova” Azienda speciale, in particolare se ragioniamo nel perimetro della trasformazione d’azienda. Caso diverso è quello relativo alle nuove assunzioni, che, invece, avvengono per via concorsuale: va notato, però, che tale situazione, o perlomeno similare, riguarda anche le Spa a totale capitale pubblico o quelle controllate dal pubblico  (con l’eccezione delle società quotate) dopo l’emanazione del DL 112/2008 (vedi art. 18).
Analoga situazione la si riscontra per quanto riguarda le limitazioni di carattere contrattuale e occupazionale, dove non si riscontrano differenze significative tra Aziende speciali e Spa a totale partecipazione pubblica o controllate affidatarie dirette di servizi pubblici locali,sempre con l’eccezione delle società quotate.

Infine, c’è anche chi solleva il problema dei passaggi troppo farraginosi e complicati che un’Azienda speciale, soprattutto se di tipo consortile, deve affrontare per approvare i propri atti fondamentali (Statuto, bilancio preventivo e consuntivo), visto che essi devono essere votati da tutti i Consigli Comunali di quei Comuni che sono interessati alla gestione del servizio idrico dell’Azienda speciale. Ora, su questo punto, basta osservare, da una parte, che l’approvazione degli atti non richiede che tutti i Consigli Comunali, unanimemente, lo facciano: come succede già negli ATO, il regolamento può benissimo fissare maggioranze qualificate (un certo numero di Consigli Comunali che rappresentino una certa percentuale di popolazione). Dall’altra, invece, non si può non far notare che la discussione nei Consigli Comunali sugli atti fondamentali che riguardano gli indirizzi delle Aziende speciali è un fatto positivo e importante, perché inizia ad andare verso un percorso di ampliamento della democrazie e può costituire una premessa di quel processo di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori che ho provato a descrivere prima.

Insomma, non mi pare che si possa continuare a insistere sul fatto che la ripubblicizzazione del servizio idrico e una sua nuova gestione pubblica e partecipata non si possa realizzare: dopo questo excursus, penso si possa convenire che ora non ci sono più alibi per percorrere questa strada e che l’unico ostacolo diventa la mancanza di volontà politica.

Il gioco delle tre carte dell’AEEG sulla tariffa del servizio idrico
Procedere sulla strada della ripubblicizzazione del servizio idrico significa non solo mettere in campo una progettualità coerente con essa su tutti gli aspetti che riguardano l’insieme del servizio stesso, come abbiamo provato a fare prima affrontando il nodo del suo finanziamento, ma anche sbarrare la via ai tentativi di contraddire l’esito referendario. Non solo contrastando le ipotesi tuttora in campo di rilanciare i processi di privatizzazione, ma fermando quello che allo stato attuale è l’attacco più insidioso e truffaldino in corso.
Mi riferisco all’approvazione da parte dell’ Authority dell’Energia Eettrica e del Gas del nuovo Metodo Tariffario Transitorio che, oltre che a ripercorrere tutti i limiti di un’impostazione basata sul full cost recovery, presenta diversi aspetti di illegittimità e che, per questo, è stato impugnato davanti al TAR della Lombardia dal Forum Italiano dei Movimenti per l’ Acqua e da Federconsumatori.
Tra questi, spicca la conclamata violazione dell’ esito referendario rispetto all’abrogazione della remunerazione del capitale investito nelle tariffe del servizio idrico: lo si fa con un vero e proprio gioco delle tre carte. Formalmente non compare più la dizione remunerazione del capitale, ma si riconosce una nuova voce tariffaria relativa agli oneri finanziari e fiscali, che però viene calcolata esattamente come prima, cioè applicando una percentuale media nazionale al capitale investito, sia esso quello preso a prestito che quello proprio. L’ unica differenza è di tipo quantitativo, nel senso che – bontà loro – adesso si calcola non più il 7% di remunerazione, bensì il 6, 4%: insomma, il referendum vale un misero sconticino dello 0,6%!

Nell’arroganza e nella caparbietà dell’ AEEG, non si può non cogliere l’impossibilità da parte dei soggetti economici privati e dei loro fedeli interpreti di adeguarsi alla volontà referendaria, che, su questa questione, anche dal punto di vista giuridico, ha un carattere assolutamente eversivo rispetto ad un’ impostazione che prevede un ruolo significativo dei soggetti privati, con il ” normale” portato di poter effettuare profitti nella gestione del servizio. Infatti, trattare seriamente il tema degli oneri finanziari significa stare sempre nel campo di come affrontare i costi del servizio, come abbiamo fatto nella nostra proposta avanzata sopra, ma ciò significa ragionare sempre in un’ ottica di pareggio tra costi e ricavi e non in quella di riconoscere profitti! Del resto, basta esaminare un caso concreto per rendersi conto della differenza tra riconoscimento degli oneri finanziari e remunerazione del capitale. Se, per esempio, guardiamo i dati di SMAT Spa, l’azienda a totale capitale pubblico che gestisce il servizio idrico nel territorio torinese, possiamo facilmente constatare, prendendo il bilancio del 2011, che lì i reali oneri finanziari assommano a 4,9 milioni di euro, mentre, se li calcoliamo grosso modo seguendo il metodo dell’ AEEG, prendendo quindi come riferimento le immobilizzazioni immateriali e materiali nette dello stato patrimoniale iscritte a bilancio (cioè depurate dai relativi Fondi di Ammortamento) e applicando ad esse la percentuale del 6,4%, allora arriviamo ad una cifra di ben 36,8 mil euro!

Insomma, occorre che tutti si misurino anche con questo punto: la battaglia per la ripubblicizzazione del servizio idrico si compone di volontà politica, di costruzione di un nuovo orizzonte di proposte e elaborazione, ma anche di un duro scontro nei confronti di chi, per affermare interessi consolidati e ideologie indiscutibili, non può che contraddire l’esito referendario, contrapporre il profitto di pochi alla democrazia.

Al popolo dell’acqua tutto ciò è molto chiaro e dovrebbe esserlo in settori più larghi della società e della politica. In ogni caso, ai privatizzatori silenti e ai timidi incapaci di progettare il futuro, consigliamo di cambiare strada o, perlomeno, di rendersi conto che è inutile provare a fermare il cambiamento che è in corso.

articolo di Corrado Oddi