Ci sono ospedali – e lo sappiamo – che vanno oltre l’immaginazione. Nonostante l’eroismo di dirigenti, dottori ed infermiere. Nonostante il coronavirus non sia – per ora – la priorità.
Uno di questi è l’ospedale di Primo Soccorso di Cubarà, regione di Boyacà, ai confini del resguardo indigeno del popolo indigeno Uwa, vicino alla frontiera colombiana col Venezuela.
Sono soprattutto donne indigene quelle che incontriamo nell’atrio, alcune siedono per terra mentre i bambini gattonano o dormono fra le loro braccia. “Pochi giorni fa abbiamo perso un piccolo di 15 mesi per problemi respiratori – ci spiega la giovane dirigente Ana Zuleima Mendoza – il quarto quest’anno. Arrivano qui da noi fortemente denutriti, spesso non riusciamo più a fare niente”.
L’edificio verde, di un piano, è stato recentemente ampliato: “Quello che vogliamo fare – mi racconta Zuleima, indicandomi un pezzo di terra incolta appena fuori dal reparto pediatrico – è un orto con piante medicinali che gli U’wa possano usare quando qualche congiunto è ricoverato. Unire la nostra medicina con la loro potrebbe fare la differenza, per quanto riguarda la predisposizione a farsi visitare, ma anche per la capacità dei pazienti di combattere le proprie malattie. La mortalità infantile è alta, anche se non abbiamo dati certi. Si parla del 4 per mille, ma siamo davvero lontani dalla realtà. I nati raramente vengono registrati, E le famiglie indigene non portano quasi mai i loro figli in ospedale. Ci sono le difficoltà logistiche – molti giorni di cammino, nessun sostegno per i parenti di chi è ricoverato, le forme di razzismo di cui sono spesso oggetto – ma anche la colpevolizzazione da parte delle strutture verso la comunità, che non ha portato per tempo il bambino ammalato dai medici”.
La pediatria ha due letti. L’ospedale intero ne ha 12. Manca tutto o quasi. Per esami o ricoveri bisogna andare a Bucaramanga, dodici ore di autobus. “Stiamo cercando di avere un’ecografo nuovo, perchè la terza causa di morte, dopo diarrea e malattie respiratorie, sono le complicazioni derivanti da parti problematici”.
Però una cosa sono riuscite a farla, la giovane dirigente, le infermiere, la dottoressa e la neosindaca di Cubarà Aura Cristancho – che non a caso è U’wa, ed è la prima sindaca indigena della Colombia (insieme ad una collega del popolo muiscas): “Una brigada de salud: per dieci giorni, una equipe di cinque persone ha camminato per alcune comunità del resguardo indigeno U’wa, con in spalla materiale per analisi, medicine e l’occorrente per costruire un piccolo ospedale da campo – ci racconta con molto orgoglio la stessa sindaca”. Hanno curato 750 persone, soprattutto mamme e bambini. Vorrebbero ripetere a breve l’esperienza, che a detta dell’infermiera: ”E’ stata davvero bella. Il Popolo U’wa è ben strutturato dal punto di vista della cura e della salute: ha molti rimedi naturali, una medicina olistica che naturalmente attiene anche alla sfera spirituale.
“Hanno solo bisogno di qualche aiuto per il cambio repentino di certe abitudini alimentari – spiega l’infermiera – e di cura connesse al forte inquinamento del loro ambiente per la presenza di impianti petroliferi; poi il cambio climatico e la restrizione del loro territorio: tutti elementi che hanno cambiato il loro stile di vita, rendendo la loro alimentazione spesso troppo scarsa e poco nutriente. Poi ci sono anche certe modalità, come il camminare scalzi, che espone i bambini a parassitosi. Non è tanto il terreno dei boschi, ad essere contaminato. Quanto la coabitazione con animali da cortile, che non ha mai fatto pare della cultura U’wa, originariamente nomade”.
Il coraggio di questo gruppo di donne dona una luce meno severa al piccolo ospedale, e agli occhi tristi di mamme e bambini , disorientati e fuori posto fra muri di cemento e odore di disinfettante.
Mentre ci allontaniamo pensierosi, una infermiera che si presenta come la caporeparto ci viene incontro sorridente – almeno sembra, sotto la mascherina – e gentilmente ci chiede da quanto siamo in Colombia e se stiamo bene e se abbiamo sintomi legati al CoVid19. Ci rediamo conto di aver avuto molti sguardi addosso, tutto il tempo. Siamo gli unici bianchi. E’ vero. Ma siamo anche italiani. E adesso facciamo paura noi.