L’acqua e la guerra: in Ucraina si soffre la sete

il: 12 Ottobre 2022
Il fiume Dnieper. Foto tratta da unsplash.com

Dopo sei mesi di guerra le condizioni di approvvigionamento idrico in Ucraina appaiono disastrose. In agosto 1,4 milioni di abitanti non avevano accesso all’acqua e almeno 16 milioni non ne disponevano a sufficienza. Numerose infrastrutture sono state gravemente danneggiate: dighe (almeno quattro), torri idriche, condotte fognarie, stazioni di pompaggio e di filtraggio (ceobs.org).

Dopo i bombardamenti di Mariupol, l’acqua potabile è stata inquinata dalle acque reflue con grave rischio di diffusione del colera. Attualmente il 25 per cento della popolazione fa ricorso ai pozzi estraendo acqua molto spesso contaminata.

La qualità dell’acqua, infatti, è estremamente peggiorata e in molte zone il ripristino delle infrastrutture idriche è considerato impossibile. Nello stesso tempo, fiumi, mari e zone umide sono stati costantemente aggrediti dall’inquinamento che ne ha minato la vitalità e la capacità rigenerativa: sostanze tossiche fuoriuscite dai depositi di carburante e di agenti chimici colpiti dai missili, particelle di cemento, vetro, amianto, diossina rilasciati nell’atmosfera dai bombardamenti e in seguito ricadute con le piogge. La distruzione dei ponti – almeno cinquanta dall’inizio del conflitto – ha modificato il flusso d’acqua dei fiumi dove, in molti punti di attraversamento i veicoli militari abbandonati si corrodono lentamente.

Centrale atomica di Chernobyl

Anche parte delle zone umide, quelle della Polesia e della zona di Chernobyl, sono state devastate dalle azioni di guerra (newscientist.com). Grande allarme ha sollevato la condizione del Mar Nero; alle distruzioni degli ecosistemi dovute a materiali esplosivi infiammabili, caustici e radioattivi, si sono aggiunte le fuoriuscite di carburante dalle navi, mentre l’uso dei sonar e le esplosioni sotto il livello dell’acqua hanno causato la morte delle creature marine, tra cui migliaia di delfini.

Difficile avere un quadro preciso della situazione; alcune zone sono occupate, in altre è difficile l’accesso o è trascurata la costante osservazione. Infatti, i sistemi di verifica dei danni ambientali non sono entrati a far parte degli obiettivi governativi e la protezione legale dell’ambiente è debole. Gli interventi previsti dal piano di ricostruzione discusso a Lugano il 4-5 luglio alla Ukraine Recovery Conference, un incontro internazionale promosso da Ucraina e Svizzera, sono stati criticati dalle organizzazioni ecologiste non governative ucraine come peggiorative delle condizioni attuali (uncg.org.ua).

Il processo di ricostruzione sarà sostenibile se basato su un reale interesse per l’ambiente e su una conoscenza accurata delle conseguenze della guerra sugli equilibri ecologici. È quanto ha sostenuto Doug Weir direttore del Conflict and Environment Observatory (Ceobs), una organizzazione non-profit sorta in Inghilterra nel 2018, nell’articolo del 28 luglio: Sustainable Recovery? First Sustain Interest in Ukraine’s Environment.

Smilitarizzare le informazioni su guerra e ambiente

Grazie soprattutto alle rilevazioni da remoto, l’invasione dell’Ucraina è forse “il conflitto più osservato della storia” scrive Weir. Organizzazioni non governative ucraine (tra cui Ekodia e Ukranian Nature Conservation Group), pacifiste (PAX for Peace) e lo stesso governo ucraino cercano di monitorare costantemente le conseguenze del conflitto. Tuttavia, gli obiettivi che guidano l’attività di osservazione divergono sotto alcuni importanti aspetti. Mentre il governo è impegnato nella raccolta dei dati allo scopo di tradurre i danni in termini economici al fine di ottenere le riparazioni, alcune ong ucraine, come Ekodia, si propongono di agevolare la transizione del paese verso una economia sostenibile che preveda l’abbandono delle fonti fossili di energia, altre, come Ukranian Nature Conservation Group (Uncg) pongono l’accento sulla conservazione della biodiversità come aspetto importante nel processo di ricostruzione.

Benché per alcune ong l’obiettivo di difendere l’integrità ecologica conviva con il sostegno della difesa armata (uncg.org), esse hanno diffuso informazioni importanti, per lo più trascurate dai media, o denunciato la legislazione di emergenza che consente, ad esempio, di porre a cultura anche le riserve naturali e le steppe (uncg.org.ua) e che già ha messo a rischio una parte rilevante degli ambienti naturali.

L’attenzione dei media, infatti, non si è soffermata sulle conseguenze ambientali di alcuni drammatici episodi bellici; ne sono un esempio l’assedio all’impianto siderurgico Azovstal, diventato una leggenda della resistenza ucraina. Ampio spazio è stato riservato dalla stampa alle condizioni e ai rischi di civili e soldati rinchiusi entro le mura dell’acciaieria, molto minore quello riservato alle conseguenze e ai rischi ambientali rappresentati dai bombardamenti su un complesso industriale che conteneva al suo interno decine di migliaia di tonnellate di soluzione di idrogeno solforato in grado di cancellare ogni forma di vita, vegetale e animale, dal Mar d’Azov.

Un altro esempio di distruzione ambientale che è rimasta sullo sfondo nella ricostruzione degli avvenimenti è quello dell’isola di Zmiinyi (isola dei serpenti) nel Mar Nero. Occupata all’inizio del conflitto, dopo quattro mesi di attacchi devastanti da parte ucraina, l’esercito russo si è ritirato. Riserva faunistica dal 1998, l’isola, il cui territorio è in gran parte bruciato, è diventata un esempio di resistenza e di orgoglio nazionale. Prima del conflitto erano presenti 197 specie di piante, 71 di licheni, 241 di uccelli, due di rettili, tre di anfibi e oltre 300 di invertebrati. In alcuni anni il 45 per cento delle specie di uccelli migratorie dell’Ucraina e dei vicini paesi erano soliti sostare e trovare riposo sull’isola. Nelle acque circostanti erano state individuate 58 specie di pesci, tre di delfini e sei di granchi. Il numero di individui di queste specie non era elevato e ad oggi non si sa cosa sia rimasto della biodiversità (uncg.org.ua).

Se i danni all’ambiente sono taciuti e le informazioni sono manipolate e distorte, le distruzioni ambientali possono entrare a far parte del gioco delle reciproche accuse o della mitologia della difesa nazionale e diventare un’arma di guerra, deviando l’attenzione sulle misure necessarie per affrontare i rischi e proteggere la popolazione civile. È accaduto nel caso del danneggiamento della diga sul fiume Irpin, di cui si dirà più avanti, ed è accaduto nelle ultime ore con il sabotaggio alle condotte sottomarine del gas che ha liberato nell’atmosfera un’enorme quantità di metano con gravi implicazioni per il clima e non senza perturbamenti per la vita del mare.

Documentare le distruzioni ambientali, diffondere informazioni volte a promuovere il dialogo e la cooperazione tra diversi attori – ong, accademia, Un, e soprattutto la società civile – innescare un processo normativo volto a proteggere l’ambiente e coloro che da esso dipendono – prima, durante e dopo i conflitti – è quanto si prefigge Ceobs nella convinzione che le informazioni sulle conseguenze distruttive dei conflitti sugli ecosistemi, siano il primo passo verso una pace sostenibile (ceobs.org).

Per avere un quadro delle conseguenze ambientali dei conflitti, oltre alle immagini satellitari è importante disporre di osservazioni sul posto, affidarsi alle conoscenze locali, ai saperi e alle esperienze delle comunità, ai principi di quella che viene chiamata la civilian science, o la citizen science, la cui rilevanza in tempo di guerra è stata esposta nell’articolo del 2019 di Doug Weir, Dan McQuillan e Robert Francis: Civilian Science: The Potential of Partecipatory Environmental Monitoring in Areas Affected by Armed Conflicts. Rifacendosi agli studi recenti sulla citizen science e anche alle riflessioni femministe sulla scienza di Sandra Harding e Donna Haraway, gli studiosi affermano che l’etica della citizen science è quella dell’inclusione, della condivisione e della partecipazione attraverso tutto il processo di elaborazione scientifica. Essa riconosce il valore della “conoscenza situata”, mette in discussione l’idea della visione dall’alto universalizzante e prospetta una visione democratica e orizzontale. Popolazioni indigene o marginalizzate, normalmente maggiormente colpite dalla distruzione ambientale, persone impegnate nella protezione civile, specialisti dello sminamento, profughi e profughe possono avere dati e prospettive in grado di documentare con precisione le ripercussioni sull’ambiente delle azioni di guerra. Infatti, al di là dei rischi e di eventi catastrofici, il degrado ambientale si verifica quotidianamente attraverso migliaia di insulti su centinaia di chilometri quadrati che, più la guerra continua, minore visibilità avranno (ceobs.org).

Dare la massima visibilità ai danni ambientali, mettere in rilievo le connessioni tra ecologia, salute, diritti umani e pace, svelare le distorsioni, le manipolazioni e l’uso delle risorse naturali per obiettivi militari è lo scopo degli aggiornamenti tematici compiuti da Ceobs e da Zoï Environment Network – una organizzazione internazionale con sede a Ginevra, “specializzata nell’analisi e nella comunicazione dei temi ambientali – e pubblicati tra giugno e settembre 2022. Il primo rapporto, apparso a luglio, è dedicato alla condizione dei siti nucleari e ai rischi radioattivi Nuclear Sites and Radiation Risks, il secondo, Water, è dedicato all’acqua.

Il caso di studio analizzato nell’ultimo rapporto, quello sul fiume Irpin, anch’esso entrato a far parte del mito della difesa eroica della nazione, ben illustra l’uso delle risorse naturali e delle informazioni come armi di guerra.

La guerra dell’acqua

Fin dal primo giorno del conflitto l’acqua è stata oggetto di contesa tra Russa e Ucraina e l’impianto idroelettrico che sorgeva nei pressi di Kerson è stato occupato dall’esercito russo. In quel punto il canale della Crimea settentrionale si congiunge al fiume Dnieper. Nel 2014 il canale, la principale risorsa idrica della Crimea che copriva l’80-85 per cento del fabbisogno, è stato bloccato dall’Ucraina in seguito all’annessione della penisola che da allora è stata afflitta dalla siccità. Il 24 febbraio la diga che bloccava il flusso di acqua verso la Crimea è stata fatta esplodere e in quello stesso giorno la Russia ha annunciato che la Crimea, importante punto di transito e supporto per la guerra, sarebbe stata nuovamente rifornita di acqua (ceobs.org).

Due giorni dopo, il 26 febbraio, è stata danneggiata da una esplosione la diga sul fiume Irpin e nelle settimane successive la vallata è stata invasa dall’acqua (rubryka.com). L’esondazione del fiume ha fermato l’avanzata dell’esercito russo verso Kiev.

Quando l’alluvione divenne visibile, sulla stampa si parlò di “guerra idraulica” (washingtonpost.com) e si affacciò l’ipotesi di una precisa strategia militare ucraina. I media locali, al contrario, continuarono ad attribuire la responsabilità alle truppe di occupazione e due giorni dopo l’ufficio del Procuratore generale accusò le truppe russe di aver distrutto la stazione di pompaggio. Dichiarazioni simili furono rilasciate dal ministero delle Infrastrutture e da quello dell’Ecologia. In aprile intervenne nella disputa l’ecologista ucraino Volodymyr Boreyko con la proposta di attribuire all’Irpin l’appellativo di “fiume eroico” per aver fermato con la sua esondazione l’avanzata russa nel febbraio 2022, come aveva fermato l’invasione nazista nel 1941. Credo che all’Irpin debba essere attribuito l’appellativo di “eroe”, ha detto al Guardian l’ecologista, e debba godere di forti protezioni ecologiche perché quest’anno, insieme alle Forze armate ucraine e alle Forze di difesa territoriali ha avuto uno dei ruoli più importanti nella difesa della nostra capitale nell’arco degli ultimi 1.000 anni”.

In virtù di una strana commistione di nazionalismo, militarismo ed ecologia, a parere di Boreyko, il fiume meritava il premio della protezione, al pari di una medaglia al valor militare, una retorica che riflette la logica crudele e patriarcale fondata sul sacrificio.

Il termine di “fiume eroe” è stato ripreso dalle testate di molti giornali e, quando le immagini dai satelliti confermarono l’esistenza di lesioni da esplosivo nella parte meridionale della diga, il governatore della regione ammise che il danneggiamento era opera delle truppe ucraine.

Le immagini da remoto rivelarono anche le reali dimensioni dell’allagamento: 46 chilometri quadrati a febbraio e 28 ad agosto (foto ceobs.org).

Le conseguenze per la popolazione civile sono state pesanti. Con le abitazioni, i campi, i prati, i pascoli allagati, gli alberi da frutto morti, senza gas e senza raccolti, in agosto c’era ancora chi contava sulle provviste di patate per i mesi a venire. “Non abbiamo una vita. Non so cos’è. Capisco che siamo vivi-e, che non siamo sotto le bombe, che non ci sparano, ma siamo nell’acqua” (rubryka.com). Sono parole di Tetiana, una donna che vive a Demidiv – il villaggio presso Kiev più colpito dall’inondazione e rimasto completamente isolato per un mese – prendendosi cura degli animali delle vicine fuggite e delle sue mucche che non possono più pascolare e deperiscono nella stalla umida.

All’inizio di agosto i lavori di riparazione della diga erano in via di completamento, ma ormai una zona di decine di chilometri quadrati era stata condannata alla sterilità per molti anni. Ha dichiarato l’ecologista Yulia Katyba:

Qualsiasi mutamento negli ecosistemi lascia sempre delle tracce. Se l’acqua appare improvvisamente in luoghi non caratterizzati da umidità eccessiva, insetti, piante, piccoli roditori e alberi muoiono e gli uccelli perdono la loro casa. Invece appaiono altri animali per i quali le nuove condizioni sono ideali e vi si possono adattare. Con il tempo l’ecosistema potrà tornare alle sue condizioni precedenti se l’acqua verrà pompata. Però, ci vorranno almeno cinque anni nelle zone maggiormente allagate per ripristinare la fertilità (rubryka.com).

Benché già in declino prima della guerra, le zone umide dell’Irpin sono ancora un ambiente ricco di biodiversità; ospitano uccelli migratori, tra cui specie a rischio come il falco dalle zampe rosse o l’oca dalla fronte bianca. L’ecosistema del fiume, prima degli interventi in era sovietica e la costruzione della diga, era l’“Amazzonia ucraina” come l’ha definita Bohdan Prots del Museo nazionale di storia naturale, abitato da specie rare. “Ci vorrebbero anni di interventi, concludeva Prots, occorrerebbe un impegno per la naturalizzazione, ma la guerra non rinaturalizza”.

La gravità del danno dal punto di vista ecologico deriva non solo dalla esondazione delle acque, ma anche dalla loro contaminazione da materiali e sostanze delle discariche delle attività produttive e dalle segherie, dai depositi di metalli, dalle acque dei pozzi neri, dai materiali edilizi, dai vari componenti dei veicoli militari abbandonati, dai carburanti che si trovano all’interno (da 500 a 1.600 litri ciascuno), dagli idrocarburi e dagli oli, dalle mine inesplose, dai residui delle esplosioni delle città vicine.

Per di più le rive del fiume sono minacciate anche da una frenesia costruttiva a cui si sono fortemente opposti gli abitanti che la considerano illegale (fb svyatoshino).

Nelle conclusioni il rapporto afferma l’urgenza della smilitarizzazione delle infrastrutture idriche, il ritiro delle truppe dalle centrali idroelettriche, le ispezioni alle infrastrutture e alle dighe di contenimento e, soprattutto, la raccolta di dati e informazioni a livello locale al più presto possibile. Se accadrà, la voce di coloro che hanno fatto l’esperienza dell’inondazione nella loro vita quotidiana, hanno visto gli alberi e gli animali soffrire e morire, le rane e le vipere popolare i giardini, la terra sempre imbevuta di acqua che si rifiuta di far germogliare i semi, risuonerà come un atto di accusa. Come quelle di Tetiana o quella di Maria, 82 anni, che vorrebbe vivere almeno ancora un anno per vedere “come andrà a finire” e che ormai sente sradicata dalla sua terra. “I giovani dicono: ‘Noi non vogliamo sapere, siamo stranieri’. Ed è proprio così che siamo, conclude Maria, stranieri, io e il vecchio marito” (rubryka.com).

Un autentico processo di pace dovrà sanare le fratture profonde che la guerra ha scavato tra le persone e la terra, spezzando il loro intimo legame con i boschi, i fiumi, gli animali.