“È stato un massacro della polizia”: relazione sulle proteste del 9-S 2020

il: 15 Dicembre 2021

Articolo pubblicato il 13 dicembre 2021 su El Espectador. Foto di José Vargas.

Una relazione indipendente sollecitata dalla sindaca Claudia López e coordinata dalle Nazioni Unite ha concluso che ci sono stati gravi episodi di abusi e di eccessivo uso della forza da parte della polizia, nell’intento di scongiurare le proteste sociali a Bogotà e Soacha, scatenate dalla morte di Javier Ordóñez nel settembre 2020, che si sono concluse con 14 morti. El Espectador ha letto il rapporto e condivide qui le conclusioni. La relazione ha decretato che le autorità politiche non hanno avuto un effettivo controllo sulla Polizia Nazionale né Metropolitana durante le proteste di settembre 2020.

Un massacro, la cui responsabilità ricade sulla Polizia Nazionale, che ha preso le vite di undici giovani a Bogotà e Soacha. Questa è la conclusione a cui è giunta una relazione indipendente, richiesta dalla sindaca Claudia López al sistema ONU, con l’obbiettivo di stabilire quanto successo dal 9 all’11 settembre 2020, nell’ambito delle proteste scatenate dall’assassinio dell’avvocato Javier Ordóñez in un caso di abusi della polizia. Nel corso di sei mesi, una squadra di sette esperti ha documentato gli avvenimenti, e il bilancio finale si può sintetizzare in un’osservazione: “Era necessaria una decisa leadership politica e operativa, a livello nazionale e distrettuale, fondata sui diritti, per evitare quanto successo.” Questa mancanza è ciò che ha causato lo sconvolgente capitolo sintetizzato nel rapporto.

Mercoledì 9 settembre 2020, il Municipio aveva in programma un evento nell’ambito del suo percorso sui diritti umani. Tuttavia, già dalle 6 della mattina stessa circolavano le immagini degli abusi polizieschi subiti dal cittadino quarantatreenne Javier Ordóñez. Un altro funzionario distrettuale aveva immediatamente previsto quello che sarebbe scaturito da questo crimine: “Era ovvio che si trattasse del nostro George Floyd”. Una protesta di massa e, in risposta, una escalation di violazioni dei diritti umani, dovuta alla violenza degli agenti della Polizia contro i giovani dei quartieri popolari, “mostrando che esiste una criminalizzazione della povertà da parte della forza pubblica, dalla quale scaturiscono comportamenti autoritari e illegali a scapito degli abitanti di determinati ambienti sociali”.

La relazione riporta che, in un contesto di alta tensione come era quello delle proteste del 9 e 10 settembre, sono state documentate sette pratiche violente: uso illecito della forza, violenza contro la forza pubblica, detenzioni arbitrarie, violenze basate sul genere, stigmatizzazione della protesta sociale, violenza contro i beni pubblici e privati e impunità. Una giornata critica, conclusa con quattordici omicidi, di cui undici conseguenza dell’uso illecito della forza da parte di agenti della Polizia. Altre due persone sono state uccise a causa dell’intervento di civili, che hanno aperto il fuoco contro manifestanti e altri. Infine, un ultimo caso: quello di Cristian Alberto Rodríguez Cano, che non è stato riconosciuto dalle autorità come vittima nel contesto delle manifestazioni del 9-S.

Il rapporto svela inoltre aspetti finora sconosciuti della crisi, come il ritiro di 250 responsabili di dialogo e convivenza dall’epicentro delle manifestazioni, ordinato invocando motivi di sicurezza dal segretario del Governo Luis Ernesto Gómez. La missione fallita di un contingente di poliziotte, inviato al Comando de Atención Inmediata (CAI) di Villa Luz per tentare di placare una protesta in ebollizione. I disaccordi della sindaca con la polizia, saliti a galla all’interno del Comitato Distrettuale dei Diritti Umani, durante la delibera iniziata alle sei della sera stessa. Al termine della sessione del Comitato, alle otto di sera, il CAI di Villa Luz era già stato bruciato e, senza che nessuno interrompesse la sindaca, in un’ora e mezza la città era in fiamme.

La sindaca Claudi López ha fornito la sua versione dei fatti del 9 settembre ai relatori: le interiorizzazioni della polizia rispetto al Comitato Distrettuale dei Diritti Umani per spiegare quanto stava accadendo, i cambiamenti nella catena di comando e la mancanza di controllo del dispiegamento di unità di appoggio ai vari CAI della città. La sindaca Lopez ricorda così ciò di cui ha iniziato a rendersi conto dopo le otto di quella sera nella sede della Mebog: “Quella notte arrivava una richiesta per una reazione, perché avrebbero bruciato il posto X, e cinque minuti dopo dicevano: l’hanno già bruciato. Nessuno riusciva ad arrivare da nessuna parte. Le risposte sono arrivate tardi in nove casi su dieci. Noi eravamo impegnati a mandare in giro pompieri e ambulanze, non a controllare i poliziotti”.

Intorno a mezzanotte, le notizie che circolavano sui social erano inequivocabili: “Ci stanno uccidendo, la polizia spara”. Dopo essersi rivolta a diversi luoghi, e aver ascoltato i rapporti dei responsabili dagli ospedali, verso l’una di notte, dal suo ufficio nel Municipio, Claudia López ha constatato che ciò che stava accadendo era “una carneficina”. Ha riferito ai relatori: “Sono rimasta chiusa un paio d’ore nel Municipio a fare verifiche e, alle tre di mattina, ho pubblicato la mia indignazione in un video. Ho dormito molto poco. Sono arrivata a casa distrutta, desolata. Era evidente che il numero di morti e feriti era assurdo, e che la città era stata distrutta in una notte”. Ha poi aggiunto: “Ho iniziato a fare ricerche sul conflitto armato in Colombia nel 2005. Però non ho bisogno di andare in biblioteca per sapere cosa significano dieci morti e 75 feriti da arma da fuoco”.

La forza emotiva del rapporto si trova nelle testimonianze. Il racconto di un giovane di 18 anni, ferito a un braccio e una gamba, che ha assistito all’agonia di Jáider Fonseca, un suo amico e vicino di casa, caduto colpito da un proiettile vicino al parco del quartiere Verbenal. La voce inedita di Manuel Avecedo, bogotano di 27 anni, che ha partecipato alla stessa protesta e ha ricevuto un proiettile nel pettorale destro. Dopo cinque giorni in terapia intensiva, quando si è svegliato gli hanno detto che sarebbe diventato paraplegico, a causa di uno sparo che aveva colpito la sua colonna vertebrale. La dolorosa storia di María del Carmen Viuvche, domestica di 62 anni e madre di tre figli, morta investita da un autobus del SITP, precedentemente preso da un gruppo di delinquenti all’incrocio tra la 139ª strada e la via Cali.

Nello sforzo di essere di più di un racconto delle vittime, della devastazione, degli arresti arbitrari e delle omissioni giuridiche, la relazione dedica un degno spazio alle storie delle vite delle quattordici vittime del 9S. Il giovane migrante venezuelano Anthony Estrada Espinosa, che sognava di mettersi in proprio riparando dispositivi tecnologici, e invece ha incontrato la morte a Soacha per colpa di una pallottola sparata da un agente di pattuglia, oggi sotto processo per omicidio e occultamento di prove, ma tutelato dal beneficio degli arresti domiciliari. Incerta come la morte di Cristian Hurtado, sempre in Ciudad Verde, Soacha, che dopo essere uscito di casa prima delle dieci per vedere la protesta ha ricevuto un colpo di pistola alla testa. Sportivo, elettricista, di anima caraibica. Il suo cappello non è mai apparso, come i testimoni che avevano promesso di tornare per parlare.

Il rapporto evidenzia come una scoperta significativa la “vittima numero 14”. Cristian Rodríguez Cano, morto nella Calle de las Flores, nel quartiere Engativá Pueblo, località di Engativá. Tuttavia, il suo nome non appare nei registri dei media né nei comunicati ufficiali. Aveva 21 anni, aveva prestato il servizio militare e stava tornando a casa dopo una partita di calcio. Si è preso un proiettile in testa ed è morto alle 12 dell’11 settembre. La sua famiglia non è stata invitata alle riunioni organizzate dal Municipio, né agli incontri programmati dalla Magistratura. È stato escluso dai rapporti perché il responsabile era in borghese, in mezzo a un gruppo di giovani che avevano appena saccheggiato un supermercato.

Secondo la relazione indipendente, dal 9 all’11 settembre sono stati documentate 14 uccisioni, il ferimento a causa di armi da fuoco di almeno 75 persone, 43 feriti da armi da punta e da taglio, 187 da altri tipi di armi e 216 poliziotti feriti.

Ogni storia è un dubbio, un interrogativo, una domanda, come la morte di Julián Mauricio González Fory di fronte al CAI di Timiza, nella località Kennedy, mentre con un gruppo di amici suonava i tamburi e cantava contro gli abusi della polizia. Sua madre, Aída Fory, di 61 anni, nata a Puerto Tejada, Cauca, di quel 9 settembre ricorda l’impunità e il disincanto. Il giorno in cui suo figlio ha ricevuto una pallottola nell’addome che gli è uscita dalla schiena. Ha passato i tre giorni e le tre notti successive a reclamare il suo corpo, fino a quando non ha ottenuto che le venisse consegnato mediante tutela. Destinato all’oblio perché nessuno vuole sapere chi lo ha ucciso. Dicono che sia stato uno sconosciuto, lei chiede giustizia e che non di dica mai più che suo figlio era un vandalo, perché “lavorava di giorno, studiava di notte e riposava un finesettimana sì e uno no”.

Andrés Felipe Rodriguez aveva 23 anni. Viveva a Verbenal ma lavorava in un autolavaggio a Chapinero. Quel 9 settembre, era uscito con alcuni amici per le manifestazioni. La testimonianza è di Tintín, il cui nome è tenuto riservato dai relatori per motivi di sicurezza. Non nasconde che lui e Andrés stessero tirando sassi contro la polizia. Ma hanno iniziato immediatamente a sparare, e Andrés è stato colpito al petto. Tintín è riuscito a farsi raccogliere da un taxi, ma dopo due isolati è stato fermato dalla polizia. “Fate scendere questo bastardo, fatelo scendere”, ha ordinato un uomo in uniforme. Tintín ha obbedito, ma si è portato in spalla Andrés fino ad un’ambulanza. “Grazie Tintín, grazie compagno. Mi hai salvato la vita”. Il cadavere è rimasto quattro giorni in Medicina Legale, prima di venire portato a Buenavista (Cordoba).

Per vent’anni, la famiglia Hernández Yara ha vissuto a tre isolati dal CAI di Verbenal, ma dopo il 9 settembre se ne sono dovuti andare a causa delle persecuzioni della polizia. La Personeria ha consigliato loro di andarsene dalla località, ma si sono spostati solo di qualche isolato. La ragione è la morte violenta di Cristian Camilo Hernández, giovane di 26 anni agli arresti domiciliari, della cui morte avvenuta il 9 settembre la famiglia si è resa conto per televisione. Sua sorella Lina è riuscita ad abbracciarlo mentre agonizzava. Ha passato mezz’ora abbracciata al suo corpo. “La smetta di piangere questo vandalo, deve essere come lui, gentaglia”, dicevano i poliziotti. Un altro gli ha sputato addosso. Cristian è stato colpito in fronte, e ha passato due ore disteso in strada. Poi lo hanno messo in una borsa come un animale. Gli investigatori della Procura hanno argomentato dicendo che hanno dovuto fare in fretta perché avevano molto da fare.

Ogni storia parla di intimidazione e paura. Germán Smith Puentes Valero, di 25 anni, morto dissanguato a Suba Rincón. La procura ha provato che l’agente che gli ha sparato ha azionato la sua arma 21 volte, ma ha attribuito questo fatto a una crisi nervosa. Jáider Alexánder Fonseca aveva 17 anni, il più giovane tra gli assassinati. Un ribelle che, secondo la sua famiglia, merita di essere ricordato perché i giovani di Verbenal vivevano minacciati dalla polizia. Diversa è la storia di Lorwan Stiwen Mendoza, che gestiva un ristorante popolare ed è stato ucciso da un colpo di pistola a Ciudad Verde, Soacha, uno sparo che alcuni dicono sia partito dal terrazzo della stazione. Julieth Ramírez aveva appena compiuto 19 anni e stava camminando verso la casa di una sua amica quando è stata colpita al cuore. Angie Paola Baquero è morta al fianco del suo compagno, vicino al CAI di Aures, a causa di un proiettile allo stomaco. Vite brevi nello stretto mondo dell’arbitrarietà.

La morte casuale, per una pallottola vagante nel mezzo di una burrasca sociale. In una protesta pubblica che non sceglie le sue vittime. Come Freddy Mahecha, capitolo a parte nei contrasti in Colombia. Sua sorella Valentina è un’agente di polizia. Suo nonno era poliziotto, come diversi suoi zii. È una famiglia dell’istituzione. “Quello che voglio sapere è chi ha ordinato di sparare, e chi sono stati gli ignavi che hanno negato l’aiuto a mio figlio vedendolo ferito”, è l’appello del padre. La famiglia Mahecha Vásquez confida nel risarcimento della polizia, che ha servito per varie generazioni, e nel fatto che riconoscano l’errore e dichiarino di fronte al Paese “che le vittime del 9 settembre non erano vandali, ma giovani lavoratori pieni di sogni, come lo era Freddy”, che è morto davanti al CAI di Aures e non è potuto diventare il militare che avrebbe voluto essere.

Perché gli orrori non rimangano solo nei ricordi effimeri, la relazione presenta delle raccomandazioni precise alle varie istituzioni, per garantire i diritti delle vittime alla verità, il risarcimento e le garanzie di non ripetizione. Chiede alla polizia un atto solenne di riconoscimento di responsabilità e genuina richiesta di perdono per i suoi abusi, un gesto che sarebbe ancora più legittimo se accompagnato dal presidente della Repubblica; al Congresso e al Governo di formulare un programma di risarcimento integrale per le vittime i cui diritti umani sono stati violati dalla polizia; al Municipio di Bogotà un tavolo di monitoraggio sui fatti violenti del 9 e 10 settembre e, in generale, allo Stato, azioni legali, educative e di accompagnamento al fine di garantire il legittimo diritto alla protesta su tutti i fronti.

Il documento – che ha consultato circa 450 fonti di informazione e 91 interviste a testimoni, autorità, familiari delle vittime ed esperti – esorta la Procura a garantire l’accesso alla giustizia e a fermare l’impunità. Non solo attraverso misure relative alla spinta ai processi investigativi pendenti, ma nella formazione di funzionari rispetto alla gestione delle manifestazioni di violenza basate sul genere. La conclusione del documento, preparato da sette professionisti con esperienza nell’ambito della scienza politica, antropologia, giornalismo, diritto penale e diritti umani, coordinati da Carlos Alfonso Negret, difensore civico, chiede alla Procura di proteggere le vittime, i testimoni e i rappresentanti nei processi giuridici.