Intervista a Vilma Rocío Almendra Quiguanás. I rischi del negoziato con un governo che puntualmente viola gli accordi, il ruolo dei giovani e della “minga indigena” nelle proteste che hanno mobilitato 15 milioni di persone sfidando la feroce repressione dell’Esmad, la necessità «partire dal basso per costruire collettivamente la nostra autonomia e prenderci cura gli uni degli altri, come abbiamo fatto in tutti questi giorni di lotta»
EDIZIONE DEL25.05.2021
PUBBLICATO24.5.2021, 23:59
Negoziare con il potere servirà a poco o a niente. Non è in alto che bisogna guardare, ma in basso, dove lottano gli impoveriti, i calpestati, i dimenticati. Sono loro che potranno dare vita, collettivamente, a «un’altra forma di esistere in questo paese che hanno chiamato Colombia». È quanto ci dice Vilma Rocío Almendra Quiguanás, «figlia del popolo Nasa e del popolo Misak», legata all’iniziativa “Pueblos en camino”, il cui compito è promuovere scambi fra i popoli impegnati nei diversi processi di resistenza e di autonomia. Molto attiva nella formazione e nella comunicazione indigena, Vilma ci tiene a sottolineare che non rappresenta alcuna organizzazione indigena, partecipando alla mobilitazione contro il governo Duque «come milioni di altre persone». Attraverso le sue parole, tuttavia, è possibile cogliere la vera anima della rivolta che sta scuotendo la Colombia, con le sue visioni, ragioni e timori.
Come valuti il dialogo in corso tra il governo e il Comité del paro?
In realtà la mobilitazione non risponde a un unico comitato, ma è caratterizzata da una forte eterogeneità e da un’estrema varietà di proposte e di rivendicazioni. I manifestanti sono in grande maggioranza giovani: disoccupati, impoveriti e senza accesso all’educazione gratuita. Trattati da sempre come scarti, oggi sono diventati i nostri eroi: sono loro che compongono la “prima linea”, che guidano le proteste, che difendono i manifestanti opponendo i loro corpi alla polizia, all’esercito e all’Esmad, cioè allo Stato con licenza di uccidere. E questi giovani non si sentono rappresentati dal Comité del paro. Il problema è che ogni volta che ci ribelliamo, ogni volta che la nostra dignità inonda le strade come un fiume, otteniamo sempre lo stesso risultato: ci sediamo a un tavolo di negoziati con il governo, ascoltiamo promesse, firmiamo accordi. E il governo puntualmente viola gli impegni.
Qualcosa però si è già ottenuto.
Il governo ha dovuto ritirare la riforma tributaria e quella della salute e rinunciare alla Coppa America, che non si terrà più in Colombia. Un successo, quest’ultimo, dei giovani che si opponevano allo svolgimento del torneo con lo slogan «Senza giustizia non c’è football». Ma bisogna fare attenzione, perché la strategia del governo è sempre stata questa: concedere ciò che serve a conquistare la nostra fiducia e quando le acque si sono calmate far passare le stesse riforme. La verità è che neppure quel minimo che chiediamo ci viene garantito in un paese in cui la salute serve ad arricchirsi e la sicurezza a uccidere e ad arricchire le transnazionali e le élite.
Il dialogo, quindi, non serve a niente?
Uno spazio di dialogo deve esserci, in maniera che il governo ascolti ciò che hanno da dire i giovani. Ma, in base all’esperienza vissuta nel Cauca, non c’è da fidarsi dei negoziati. Come possiamo sederci attorno a un tavolo a chiedere ciò che lo Stato ci ha sempre negato storicamente, mettendoci a tacere, minacciandoci, criminalizzandoci, uccidendoci? Pensiamo al cosiddetto accordo di pace tra il governo e le Farc: a cinque anni dalla firma, non solo gli impegni non sono stati mantenuti, ma gli omicidi e i massacri ai danni delle comunità non hanno fatto che aumentare. E chi è che viene ucciso? Chi ha firmato l’accordo di pace, chi si oppone alle monoculture, all’attività mineraria, al fracking e a tutti i progetti di morte sul territorio. Perché allora riporre tutto il nostro sforzo su un tavolo di negoziati, quando sappiamo che il governo ci ingannerà e non rispetterà alcun accordo?
Cosa fare allora?
La sfida è quella di smettere di guardare in alto dove c’è il potere e guardare in basso dove siamo tutti noi – neri, indigeni, contadini, giovani – per costruire collettivamente la nostra autonomia, per prenderci cura gli uni degli altri e proteggere i nostri diritti, come abbiamo fatto in tutti questi giorni di mobilitazione. Al di là di qualsiasi dialogo con il governo, dobbiamo imparare a non dipendere più da quel patriarca e carnefice che è lo Stato e ricostruire la memoria millenaria in base a cui risanare le nostre ferite, educarci, alimentarci.
Qual è stato il ruolo degli indigeni nelle manifestazioni?
I popoli originari hanno offerto il loro contributo soprattutto attraverso la Guardia indigena del Cric (Consejo Regional Indígena del Cauca), che ha soccorso e supportato la cittadinanza colpita dalla violenza della polizia, condiviso alimenti e medicine naturali, accompagnato spiritualmente le comunità mobilitate. E la gente altolocata di Cali, sostenuta dalle forze dell’ordine, ha risposto con odio e razzismo, attaccando la minga indigena con armi da fuoco. Una dottoressa di una clinica di Cali si è persino resa disponibile su Whatsapp a offrire denaro perché i paramilitari potessero uccidere «un migliaio di indigeni» («così magari capiscono la lezione», ha detto). Un altro prezioso contributo alle manifestazioni è venuto dalle autorità indigene del sudovest colombiano, in maggioranza appartenenti al popolo Misak: a loro si deve l’abbattimento della statua del conquistador spagnolo Sebastián de Belalcázar a Popayán e di quella di un altro genocida, Gonzalo Jiménez de Quesada, a Bogotá. Un atto di rifiuto nei confronti di coloro che lo Stato presenta come eroi per celebrare il massacro dei nostri popoli, insieme all’invito a tutti i popoli originari a recuperare la loro memoria millenaria.
Pensi che l’uribismo stia perdendo potere?
Di sicuro gli è caduta la maschera. Persino dei sostenitori del partito di Uribe, il Centro Democrático, sono scesi in strada a gridare: «Basta Uribe, basta Duque». Oggi il rifiuto è generalizzato: è anche la classe media ad appoggiare la protesta. Del resto, secondo Indepaz, si sarebbero mobilitati 15 milioni di colombiani e colombiane e perlomeno 800 municipi, alcuni dei quali nettamente conservatori. Il timore è che, di fronte alla forza mostrata dai manifestanti, la risposta dell’uribismo possa essere addirittura peggiore della realtà contro cui siamo insorti: praticamente, stiamo vivendo sotto una dittatura militare che assassina, tortura e fa scomparire. Però, come si dice per le strade, ci hanno tolto tutto, anche la paura. Non a caso sono stati tre episodi violenti a incrementare le proteste: l’assassinio a Pereira di Lucas Villa, l’insegnante di yoga che coscientizzava le persone sugli autobus, il suicidio di Alison a Popayán in seguito agli abusi sessuali sofferti da parte di quattro agenti e l’aggressione della minga indigena a Cali. A ogni atto di terrore e violenza, sempre più gente si ribella.
Qual è la tua speranza?
La sfida è recuperare quelle radici che ci hanno permesso di resistere a 5mila anni di patriarcato, a 529 anni di colonizzazione, a poco più di 200 anni di esistenza dello Stato: quello Stato che le compagne cilene hanno giustamente definito un «maschio stupratore». Uno Stato che ha negato la nostra cosmovisione e la nostra cultura, imponendoci un solo inno, un solo idioma, una sola bandiera. Sono queste radici che ci invitano alla minga, al lavoro collettivo in difesa della nostra salute, della nostra educazione, della nostra comunicazione, della nostra sicurezza. A riconoscerci tra di noi: gli impoveriti, i calpestati, i dimenticati, come già sta avvenendo in qualche parte del mondo, dal Rojava curdo al Chiapas zapatista. A “camminare la parola”, il pensiero che emerge dal popolo nasa ma ci connette a tutti e a tutto, in una relazione vitale e reciproca con tutti gli esseri, gli elementi e le creature, recuperando la terra per recuperare tutto: «La parola senza azione è vuota, l’azione senza parola è cieca, la parola e l’azione al di fuori dello spirito della comunità sono la morte». È riproponendo questo messaggio che daremo vita a un’altra forma di esistere in questo paese che hanno chiamato Colombia.